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I GUERRIERI DILETTANTI DELLA FALANGE OPLITICA

La tattica militare oplitica


nicola zotti



Uno dei più consolidati luoghi comuni della storia militare è che l'oplita greco fosse più addestrato e disciplinato del suo avversario persiano.

In realtà l'oplita nasce tra la fine del secolo VII e l'inizio del VI proprio per l'esigenza opposta: l'impossibilità materiale -- o l'indisponibilità -- del piccolo proprietario terriero greco di addestrarsi al servizio militare con continuità.

Un rifiuto profondo, sottolineato da una reiterata e insistita convinzione dell'inutilità e della nocività dell'addestramento, che perdura per lo meno fino al V secolo quando Pericle rimprovera gli spartani (che lo praticavano con costanza) di dedicarvi troppo tempo.

L'oplita è il miglior soldato che il cittadino greco potesse essere, un eccezionale esempio di economia di sforzi, non un brillante modello di organizzazione militare: per fare un oplita servono soprattutto molto denaro per l'equipaggiamento e forza bruta per sostenerne il peso (dai 15 ai 20 kilogrammi), mentre si possono minimizzare la necessità dell'addestramento, dell'organizzazione e del coraggio personale.

Era assolutamente indispensabile, però, una dote in più, che al cittadino greco non mancava: il legame e la fiducia tra commilitoni.

È l'unità organica della falange, che tiene assieme vecchi e giovani, più e meno ricchi, una unità di parenti, di sodali, di amici, quando non di amanti, con la sua intrinseca qualità egualitaria, a dare ai liberi greci la motivazione necessaria ad affrontare la terribile esperienza della guerra. Consapevoli che tutto il loro mondo è lì in quel momento e condivide lo stesso destino.

Una solidità che era contemporaneamente la forza e l'intrinseca debolezza della falange, quando gli avversari erano in grado di trasformarla in rigidità.

Mosso dalla necessità di difendersi, il cittadino greco dedica ad essa soprattutto risorse materiali, dotandosi in primo luogo di una panoplia difensiva completa e costosissima, che aveva come elemento principale l'Oplon, un ampio scudo (il termine generico greco per "scudo" è "aspis") rotondo, sempre riccamente decorato e personalizzato.

L'Oplon, da cui il nome oplita è uno scudo con una razionalità particolare.



Uno scudo di forma allungata, infatti, ovale o rettangolare (come ad esempio quello dei galli e poi dei romani) rispetto ad uno scudo circolare come l'Oplon segue meglio la forma del corpo umano e sfrutta con maggiore efficacia il peso del materiale, al costo, però, soprattutto di un maggiore addestramento, perché deve essere obbligatoriamente usato in verticale.

Nell'immagine potete vedere come uno scudo ovale di area (e quindi di peso) pari alla metà di un Oplon, ma con la dimensione maggiore uguale, copre le stesse aree vitali del corpo umano: l'ipotesi è di un uomo alto circa 165 cm. e di un Oplon con 90 cm. di diametro.
Uno scudo circolare è però più facile da usare, perché ha un orientamento obbligato e l'Oplon, con il suo metro circa di diametro, da un lato copriva più della metà del corpo umano, dal mento alle ginocchia, e dall'altro delimitava lo spazio che l'oplita doveva occupare sul campo di battaglia: teneva, insomma, automaticamente le distanze a destra e a sinistra, dando un preciso punto di riferimento per l'allineamento delle righe.

La vera innovazione dell'Oplon è però nel modo in cui si possono sostenerne gli 8 chili circa di peso.
L' impugnatura è costituita da due appoggi: uno centrale, la porpax, attraverso la quale veniva fatto passare l'avambraccio fino al gomito, e un secondo all'estremità dello scudo, la antilabe, che veniva afferrata dalla mano.

Un terzo ulteriore aiuto a sostenere il peso dell'Oplon derivava dalla sua forma concava che permetteva di appoggiarlo anche alla spalla sinistra.

In questo modo il peso dello scudo era distribuito su tutto l'avambraccio e la spalla e senza questa innovazione tecnologica la tattica oplitica non sarebbe stata possibile.

Qui sopra potete vedere la rappresentazione schematica di una falange vista dall'alto: il fronte occupato da cinque uomini è 4-4,5 metri e la profondità circa 6 metri e mezzo, per gli otto uomini che costituivano il numero tipico di ranghi.

Tenendo gli Oplon sovrapposti l'uno all'altro, l'oplita poteva anche garantirsi una discreta protezione del proprio fianco destro, mantenendosi al riparo dello scudo impugnato dal commilitone immediatamente su quel fianco.
Come descrive accuratamente Tucidide narrando la battaglia di Mantineia del 418, questa attitudine generava una spontanea traslazione della falange verso destra durante le marce: cercando di coprirsi il più possibile sulla destra ci si avvicinava al compagno su quel lato, serrando a destra ma contemporanemente spingendolo ancora po' più a destra e allargando lo spazio sulla sinistra: ne seguiva una reazione a catena che faceva procedere tutta la formazione in diagonale.

Questo movimento provocava il reciproco sopravanzarsi delle ali destre su quelle sinistre, che rischiavano di trovarsi circondate dall'avversario: non un piano preordinato, ma un avvenimento casuale che poteva essere adeguatamente sfruttato solo perché il comandante in capo si posizionava proprio all'estremità destra dello schieramento.

Grazie alla sua autorità ed esperienza, gli opliti che non trovavano avversari di fronte a loro, manovravano chiudendo verso il nemico -- come avvenne a Maratona -- con la sufficiente coerenza e solidità.

In effetti, l'unica necessità sul campo di battaglia della falange oplitica era la coesione: l'uomo che abbandonava i suoi ranghi per fuggire era dannoso quanto quello che, spinto da individualismo, cercava gloria personale.

Il muro di scudi doveva rimanere compatto, a costo di marciare più lentamente, come ad esempio preferivano fare gli spartani.

Era la compattezza dello sforzo a garantire la sinergia che poteva valere la vittoria e ogni perdita di coesione rischiava di sgretolare la falange sia fisicamente che moralmente: come potete vedere nello schema qui a fianco, nel quale è rappresentata la situazione ideale di una falange al momento dell'impatto.

Bastava anche una lieve sconnessione del terreno, o una pianura troppo ampia che lasciava i fianchi scoperti, per rendere irrimediabilmente vulnerabile la falange.


Un problema di equilibrio che incontrava il suo culmine durante l'attacco. L'esigenza psicologica di andare incontro al nemico per "farla finita e tornarsene a casa" si scontrava con la necessità di mantenere la freddezza e l'ordine.

Il successo di un attacco dipendeva da fattori in potenziale conflitto: con l'impeto giusto si poteva sferrare un colpo di lancia potentissimo, ma troppo impeto poteva far rimanere infilzati nelle lance degli avversari; con la velocità si acquisiva potenza, ma ci si distanziava contemporaneamente dai ranghi di supporto, col rischio di rimbalzare letteralmente contro una più lenta ma anche più compatta massa avversaria.

L'indisciplina delle falangi oplitiche, la loro ansia di concludere nel più breve tempo possibile l'esperienza della battaglia, rendeva difficile il raggiungimento di questo già precario equilibrio e fu all'origine di più di una sconfitta.

Senofonte nei Memorabilia (3.1.8-11) fa spiegare a Socrate come all'epoca della guerra del Peloponneso (431-404) questa esigenza venisse affrontata ponendo gli uomini migliori in prima e ultima fila e i peggiori in mezzo, in modo che questi "potessero essere guidati dall'avanguardia e sospinti in avanti dalla retroguardia".

Con il suo proverbiale acume, poi, Socrate sottolinea che il problema si spostava in primo luogo a conoscere gli uomini e a capire quali fossero i migliori, e, parallelamente, ad acquisire l'elasticità mentale necessaria a discernere come modificare lo schieramento degli uomini e della falange per adattarla alle singolari esigenze di una particolare situazione.

La lancia costituiva l'armamento principale dell'oplita. E' un'arma che non richiede addestramento particolare per essere usata, non ha una scherma ricca, né sarebbe possibile per l'oplita esercitarla, incapacitato nei movimenti dalla compattezza della falange.

Un potente colpo sottomano poteva essere vibrato al momento dell'impatto, diretto al ventre dell'avversario, evenualmente lasciato esposto dalla protezione degli scudi in una falange disordinata.

Quando le due falangi arrivavano a contatto di scudo, prevaleva l'azione di spinta tesa a far indietreggiare e alla fine rovesciare gli avversari: qui la coesione della falange era di vitale importanza, vuoi per esercitare la spinta più costante e potente, vuoi per tenere duro in caso di cedimento.

In queste mischie, chi aveva abbastanza mobilità e sostegno dai ranghi posteriori, usava la lancia sopramano, ferendo l'avversario nella parte superiore del corpo con colpi dall'alto verso il basso: azione di spinta e delle lance si sommavano, anche questa volta in un equilibrio precario e fragile.
Nel combattimento tra masse, i colpi venivano menati letteralmente alla cieca e per questo la cecità non veniva considerata un'infermità tale da giustificare il sottrarsi al proprio dovere di cittadini. Erodoto elogia il cieco Eurito che alle Termopili si fece accompagnare in battaglia da un servitore, mentre gli spartani giudicarono codardo Aristodemo, cieco a sua volta, che a motivo della sua infermità si sottrasse alla battaglia.

Spesso la lancia si pezzava al primo terribile urto e allora il combattimento poteva trasformarsi in una spasmodica lotta con il pezzo avanzato (che aveva un'apposita punta all'estremità), con la spada oplitca (specialità spartana, questa) o persino a mani nude.

L'oplita era un dilettante in armi, né pretendeva di essere qualcosa di più, anzi, con la solita eccezione degli spartani, diffidava profondamente delle mentalità e delle attitudini guerriere,

Guerrieri sui generis, incapaci di tattiche sofisticate, il frutto peculiare della comunità di cittadini-agricoltori della Grecia antica: non si capirono con i romani -- che disprezzavano il loro amore per gli esercizi ginnici, ritenuti inutili perché fini a se stessi e non indirizzati all'uso delle armi in guerra -- figuriamoci se potevano capirsi coi persiani.