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QUANDO LA STORIA LA SCRIVONO I VINCITORI

La verità sui persiani

nicola zotti


Sapete come la penso sul detto "la storia la scrivono i vincitori".

Tuttavia ci sono casi in cui si deve effettivamente parlare di storia scritta dai vincitori, e non tanto perché abbiamo quasi esclusivamente documenti o ricostruzioni storiche di quella parte, ma perché in quei fatti e in quella stessa narrazione storica, il vincitore ha trovato se stesso.

L'immagine che la cultura occidentale ha costruito dei persiani achemenidi è l'esempio sicuramente più significativo di questa scrittura storica.

Come ho già avuto modo di spiegare, la civiltà occidentale nasce proprio dal conflitto, vittorioso, con la civiltà persiana: più precisamente nasce da questo confronto che le ha dato modo di inventarsi, di spiegarsi, di capirsi.

La civiltà occidentale coi suoi pregi e i suoi difetti, si sviluppa in Grecia a partire dal V secolo a. C.: io che mi ci riconosco appieno -- anche, se non soprattutto, nei suoi difetti -- non posso dimenticare che tra i suoi pregi c'è un inesauribile e incomprimibile senso critico.

Un senso critico difficile da trovare in descrizioni come questa:

"Per la prima volta nella storia del mondo, l'addestramento, lo spirito e la compattezza di un piccolo esercito, guidato da un genio militare, prevalsero sulla forza bruta e sulla massa di un grande esercito che poteva contare soltanto sulla moltitudine e sulla ferocia dei propri armati (...) pur nella sua primitività e non eccessiva disciplina".

Così Ezio Cecchini ("Le battaglie che fecero la storia"), descrive la situazione e l'esercito persiano a Maratona, ma avrei potuto produrre molti altri esempi.

Si dimentica che stiamo parlando della civiltà persiana, pervasa da una forte componente etica e da una visione escatologica dell'esistenza sconosciuta al paganesimo greco, la prima a coltivare una religione monoteista etnicamente aperta.

Una civiltà che aveva prodotto il primo impero multirazziale, multilingue e multireligioso, che i greci, loro sì etnocentrici, non erano in grado di capire, non dico apprezzare: era proprio la loro riluttanza ad imparare le lingue che li portava a definire "barbari" (balbuzienti), quelli che non parlavano il greco.

Un impero che Ciro il Grande già mezzo secolo prima di Maratona aveva dotato di quella che oggi viene ricordata come la prima carta dei diritti dell'uomo, nella quale è scritto:


"Finché io sarò monarca non permetterò a nessuno di prendere la proprietà mobile e immobile di alcuno mediante la forza o senza compensazione.

Finché sarò vivo impedirò il lavoro forzato e non pagato.

Oggi annuncio che ciascuno è libero di scegliere la propria religione.

Le genti sono libere di vivere in tutte le regioni e di trovare lavoro, nel rispetto dei diritti degli altri.

Nessun uomo o donna potrà scontare le colpe dei propri parenti.

Impedirò la schiavitù e i miei governatori e subordinati sono obbligati a proibire lo scambio come schiavi di uomini e donne nei propri domini di competenza. Questa tradizione dovrebbe venire estinta nel mondo intero".

Non male per dei "barbari".

L'esercito persiano non era affatto una moltitudine feroce, primitiva e indisciplinata, ma uno strumento militare molto più avanzato di quello greco soprattutto sotto il profilo della manovra e delle armi combinate.

Cavalleria, fanteria pesante e fanterie leggere, infatti, agivano in stretto coordinamento tra loro e, come narra Erodoto, vennero addestrate per anni prima delle campagne di Dario e Serse: nulla a che vedere con il precario addestramento degli opliti greci.

L'arco, arma in uso praticamente in tutte le truppe persiane, richiede un addestramento intenso e costante, sia individuale che collettivo, e così anche la cavalleria e le truppe leggere.

Mantenere una formazione di cavalleria o indietraggiare per poi avanzare nuovamente per riportarsi a tiro, non sono cose che si improvvisano e comunque i greci non erano in grado di farle.

I bassorilievi di Persepoli e di Susa, poi, ci illustrano le fanterie achemenidi marciare ordinate e composte: si ipotizza si tratti degli immortali, ma non ce n'è prova concreta. In ogni caso quelle rappresentazioni non sono il manifesto di un'orda primitiva.

D'altra parte la nobiltà persiana veniva addestrata all'uso delle armi fin dall'infanzia in modo sistematico: imparavano a combattere sia a piedi che a cavallo, con lancia, giavellotto e arco, e dovevano padroneggiare tutte queste tecniche di combattimento con uguale abilità.

Un esercito il cui coraggio non può essere ingiustamente scambiato per ferocia se sempre Erodoto più volte sottolinea con ammirazione la solidità morale e il senso dell'onore delle truppe persiane.

Insomma questa storia scritta dai vincitori ha costruito molti luoghi comuni, giustificabili negli antichi greci che dovevano sempre provare un certo nervosismo ripensando agli scampati pericoli e alle inaspettate vittorie, meno comprensibili 2.500 anni dopo.

Vero è che i greci non erano sudditi, ma cittadini liberi e consapevoli: Senofonte può ammirare Ciro il Grande e scrivere per lui la Ciropedia, ma al tempo stesso può essere l'interprete di quell'impresa che a nessun suddito può riuscire, l'Anabasi dei 10.000.