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IL SUO SIGNIFICATO E IL SUO RUOLO NEL PENSIERO STRATEGICO

Dinamiche di vittoria

Nicola Zotti

La vittoria incerta

L'idea di vittoria

Dinamiche di vittoria

La vittoria come "situazione"

Nike con una coppa e una brocca che offre libagioni su un altare da un vaso attico del V secolo

Dinamiche di vittoria

«[...] la guerra non solo rassomiglia al camaleonte, perché cambia di natura ad ogni caso concreto, ma si presenta inoltre nel suo aspetto generale, sotto il rapporto delle tendenze che regnano in essa come uno strano triedro composto: 1. della violenza originale del suo elemento, l'odio e l'inimicizia, da considerarsi come un cieco istinto; 2. del giuoco delle probabilità e del caso, che le imprimono il carattere di una libera attività dell'anima; 3. della sua natura subordinata di strumento politico, ciò che la riconduce alla pura e semplice ragione. La prima di queste tre facce corrisponde più specialmente al popolo, la seconda al condottiero ed al suo esercito, la terza al governo».

Così von Clausewitz descrive la dinamica della guerra e gli stessi tre soggetti da lui elencati (la pubblica opinione, i militari, la guida politica) concorrono in diverso grado a definire dinamicamente la vittoria, secondo tre modelli individuabili storicamente.

Il primo modello è quello del "principe guerriero", nella cui persona c'è coincidenza tra guida politica assoluta e comando militare. Analizzato da Machiavelli e incarnato in tanti principi-condottieri della storia, da Alessandro a Enrico V, da Federico II a Napoleone e, almeno nelle ambizioni, da Hitler a Stalin a Saddam Hussein.

Machiavelli avverte il principe che il fine giustifica i mezzi e lo sprona ad utilizzare efficacemente il mezzo militare per i propri scopi politici, ingiungendogli addirittura di considerare la conoscenza dell'arte della guerra e dello strumento militare come il suo primo obbligo per l'esercizio e il mantenimento del governo.

In questo modello il principe, in quanto incarnazione assoluta della politica, non è responsabile che verso se stesso della conduzione della guerra: la dialettica tra politica e guerra avviene dunque ad un livello secondario, come tutti i processi politici autocratici: il principe guerriero sconfitto mette in discussione in modo diretto la sua autorità politica, ma se questa è incontestabile sul piano politico, allora anche la sconfitta non esiste, o meglio è soggettivizzata nella persona del principe.

Se, invece, il "guerriero" viene sconfitto e il "principe" ne esce così indebolito da poter essere contestato, assisteremo alla dissoluzione dell'autorità su cui si basa il suo potere e quindi alla sua caduta.

Il secondo modello è quello più propriamente clausevitziano. Von Clausewitz individua una specializzazione di ruoli, presente anche in passato, ma ormai prevalente nella sua epoca. Annibale, Scipione, Belisario, il duca di Marlborough, la maggior parte dei comandanti dell'Ottocento e del Novecento sono specialisti sottoposti ad un'autorità politica.

Questa individuazione di ambiti specialistici, riassunta nella già citata massima clausevitziana "la guerra è la prosecuzione della politica con altri mezzi", trova la sua giustificazione nell'ampliarsi della dimensione degli eserciti e della loro articolazione interna, nell'estendersi dei teatri di guerra e nell'impossibilità di dominare l'intero sviluppo delle campagne militari.

Da questa distinzione di ruoli, però, nasce un dualismo che contiene intimamente la necessità di una ricomposizione, di un accordo. L'autorità politica non può fisicamente controllare in modo diretto la guerra. Il politico, quindi, sceglie il militare, gli cede una quota della sua legittimità e può esautorarlo se questo sbaglia.

Vittoria e sconfitta assumono una consistenza oggettiva, perché si situano in un territorio che è di dialettica primaria tra due entità distinte, con capacità decisionali ed autorità distinguibili e precise.

Spesso, però, il politico esercita un'influenza pesante e paralizzante sul militare, tanto da far raccomandare a von Clausewitz che i politici lascino agli specialisti della guerra almeno l'esclusiva della "grammatica della guerra": le regole di un discorso la cui semantica è e rimane di esclusiva pertinenza politica.

In questa dialettica vengono individuati qualità, tempi e magnitudine della vittoria, che funzionalmente individuano la variabile dipendente, i mezzi bellici necessari da affidare ai militari: due lati di un triangolo e la sua area che determinano il lato ignoto.

Il terzo modello è peculiare dei sistemi politici moderni, in particolare di quelli democratici.

Quando nella dialettica tra politici e militari si inserisce a livello paritario almeno un ulteriore attore, la pubblica opinione (ma eventualmente anche altri: altri governi, altre pubbliche opinioni), allora la definizione di vittoria diventa in modo evidente un gioco molto meno meccanico e matematico di quanto potesse sembrare in assenza/quasi assenza di quell'attore (o di quegli attori).

La vittoria acquista altre dimensioni e altre influenze devono essere considerate.

Un'ombra proiettata da una luce che oscilla su un piano ondeggiante cambia costantemente, nonostante la forma che genera l'ombra rimanga sempre la stessa: noi possiamo conoscere la forma, ma ciò che invece dovrebbe interessarci (chiedo scusa a Platone) è la sua ombra proiettata sul piano e questa non è mai ferma.

Incorriamo nell'errore di scambiare una variabile indipendente della funzione con quella dipendente, perché è la funzione che è cambiata e non ce ne siamo accorti.

La vittoria come "situazione"