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IL SUO SIGNIFICATO E IL SUO RUOLO NEL PENSIERO STRATEGICO

La vittoria come "situazione"

Nicola Zotti

La vittoria incerta

L'idea di vittoria

Dinamiche di vittoria

La vittoria come "situazione"


Nike con un incensiere e un fiore in un vaso attico del V secolo

La vittoria come "situazione"

Nel film "Wargames" (1983) il potente computer del NORAD, Joshua, afferma : «Uno strano gioco. L'unica mossa vincente è non giocare».

Una battuta che anticipava Casper Weinberger, Segretario alla difesa dell'amministrazione Reagan, il quale sostenne nel 1985 che "una guerra nucleare non può essere vinta e non deve essere combattuta mai".

Sospiriamo di sollievo a sapere che Weinberger non avebbe mai combattuto una guerra nucleare o temiamo che non riuscisse a capire come vincere e quindi semplicemente suggerisse, come Joshua, di non giocare?

Un dubbio facile da sciogliere. Equilibrio, blocchi, Guerra fredda, sfere di influenza: la terminologia di quegli anni era una continua insistita metafora della volontà generalizzata e ossessiva di mantenere lo status quo lungo le linee di frontiera decise a Yalta.

Ma il "gioco" -- la politica -- impose le sue leggi indipendentemente dalle azioni dei politici e segnò la dissoluzione del blocco comunista e con essa anche la definitiva fine del pregiudizio che non si potesse vincere, riammettendo a pieno titolo tra le regole della politica la necessità di prevalere per difendere gli interessi di una comunità.

Per anni, però, il mondo sembrò non accorgersene: a partire dalle organizzazioni internazionali come l'ONU che ancora rimangono retaggio di un mondo che non c'è più e non sanno riformarsi per capire quello nuovo.

La logica della Guerra fredda proseguì, di fatto, fino alla fine del millennio.

Dieci anni dopo la caduta del muro di Berlino, nel 1999, il presidente americano Clinton decise che Slobodan Milosevich e la sua inquietante famiglia dovevano cessare di governare su quello che avanzava della ex-Yugoslavia e, con la guerra della Nato in Kossovo, ci riuscirono. La politica si era ripresa appieno il diritto di progettare vittorie decisive e non solo di lucrare decisioni in larga parte non preventivate.

Saddam Hussein, invadendo il Kuwait il 2 agosto 1990, può pretendere di essersi per primo accorto della fine della Guerra fredda e della possibilità di vincere di nuovo.

Dichiarandosi erede di un'aggressività molto antica (quella degli arabi della Conquista), Saddam Hussein si è contemporaneamente anche fatto interprete di una volontà di vittoria molto moderna: la ricerca di un rovesciamento della "situazione" che lo colloca di diritto nell'Internazionale Situazionista, un'icona come Guy Debord per il quale "l'arte del futuro sarà il rovesciamento delle situazioni o il nulla".

Come sappiamo Saddam fu sconfitto, ma nessuno della grande coalizione che si armò contro di lui fu vincitore, perché in loro permaneva dominante la volontà di ristabilire lo status quo, né si manifestavano scopi strategici che andassero oltre quel limite.

Questa incapacità di concepire la vittoria come proiezione dinamica in un futuro in movimento, ha certamente pesanti responsabilità sugli avvenimenti del decennio successivo: un decennio che si è concluso, l'11 settembre 2001, con l'attacco di al Qaeda al cuore degli Stati Uniti e dell'occidente.

Da quella data inizia un'altra epoca.

Anche al Quaeda ha manifestato una chiara volontà di vittoria, che coincide con un sentimento diffuso e profondo nelle molte anime del fondamentalismo islamico radicale. E con l'attacco alle Torri Gemelle ha sicuramente messo a segno un successo, che le è valso il riconoscimento della leadership mondiale del terrorismo islamico, e soprattutto quella di unica vera antagonista delle democrazie occidentali.

C'è una convergenza oggettiva di scopi nelle anime del fondamentalismo islamico, l'individuazione almeno in larga parte spontanea di sinergie, che probabilmente non potrebbe essere maggiore se a guidarle fosse un'unica mano.

"La mia convinzione è che si debbano affrontare tutte le forze nemiche con tutte le forze dell'Islam; perché gli eventi non si conformano secondo il volere dell'uomo e non sappiamo quanta vita ci resta, così è sciocco sprecare questa concentrazione di truppe senza infliggere un colpo tremendo nella guerra santa": le parole del Saladino alla vigilia della battaglia ai Corni di Hattin (4 luglio 1187) verrebbero sottoscritte oggi dalle direzioni strategiche del terrorismo islamico.

L'amministrazione Bush segue la linea dettata da quella Clinton e cerca un rovesciamento della situazione sia con la guerra in Afghanistan che con la guerra in Iraq, ma non siamo ancora materialmente in grado di capire con quanta comprensione dell'idea di vittoria decisiva, anche se la guerra in Afghanistan ha effettivamente deciso che quel paese non fosse più un porto sicuro per le centrali del terrorismo e quella in Iraq ha segnato la scomparsa definitiva dalla scena internazionale dei progetti aggressivi di Saddam Hussein.

Al momento siamo 2 a 1 per gli Stati Uniti e per l'occidente, ma quanto manchi alla fine della partita (e quanto durerà il recupero) non lo sa nessuno.

Indefinibile è persino la squadra in campo per l'occidente: dell'Europa qualcuno gioca mal volentieri, qualcuno butta fuori la palla, qualcuno è in tribuna.

Non è un problema di casacca, perché nessuno (nessuno che conti) propone di indossarne una terza, né di entrare in squadra con Bin Laden. L'Europa sembra aver smarrito definitivamente l'idea di interesse comune, non parliamo di quella di vittoria, e quindi non solo non può pretendere di avere la regia della partita, ma nemmeno voce in capitolo nel dare i numeri delle maglie.

In Europa latita la politica, la capacità di farla e di capirla, e il miserrimo stato delle culture politiche -- e delle famiglie politiche che siedono al Parlamento europeo e nei parlamenti nazionali -- non è altro che il sintomo di una generalizzata crisi di identità che spinge il continente verso la deriva di una inevitabile marginalizzazione.