L'obelisco
di Axum, è tornato nel suo luogo di origine.
Sbaglieremmo, però, se pensassimo con questo di liquidare
almeno in parte il nostro ingombrante passato e in particolare
il ricordo di noi in Africa: non possiamo farci restituire
i ricordi in cambio di obelischi.
L'Italia, nostro malgrado, è ancora presente nel dibattito
politico africano.
Un esempio è la polemica partita dall'articolo "Italy:
not yet in its finest hour" del dott. Tseggai Isaac,
lettore di scienze politiche all'università del Missouri.
L'analisi del dott. Isaac vuole essere un incitamento affinché
l'Italia adotti una politica estera più decisa ed interventista
nelle questioni del Corno d'Africa.
In quest'area e soprattutto in Eritrea -- sostiene il dott.
Isaac -- l'Italia gode ancora di una riserva di stima e di
potenziale influenza che la politica estera italiana, in particolare
col governo Berlusconi, costantemente rifiuta di mettere in
gioco, tradendo così anche la gloria del proprio passato.
La grandezza di Roma -- che il dott. Isaac illustra con grande
partecipazione emotiva -- venne brevemente rivificata dal
Risorgimento per essere però delusa negli anni successivi,
quando l'Italia affrontò l'esperienza coloniale.
In particolare Isaac condanna la superficialità con
la quale il nostro paese rinunciò a rivendicare la
vittoria ad Adua, dando in questo
modo origine ad un pernicioso razzismo africano.
Un'accesa risposta è venuta dal dott. Ghelawdewos Araia
nell'articolo Falsification
of History Will Not Conceal Ethiopia's Victory at Adwa.
Trovo
significativo che questo intervento, come si può capire
dli titolo, abbia contestato a Isaac non il suo punto centrale,
ovvero la legittimità dell'Italia a contribuire in
qualche maniera alla soluzione di un problema africano --
la cosa non viene neppure presa in considerazione, in effetti
-- ma le basi su cui si fonda la richiesta del dott. Tseggai
Isaac.
Da un lato, Ghelawdewos Araia stigmatizza che Tseggai Isaac,
esaltando la civiltà romana, si sia dimenticato completamente
del contributo di quella egiziana.
Dall'altro, ripercorre l'avventura coloniale italiana nel
Corno d'Africa per contestare che l'Italia ne sia uscita vincitrice.
Capisco che sembri agli italiani una polemica bizzarra e non
sono riuscito a scoprire se e quando le esortazioni del dott.
Tseggai Isaac siano state ascoltate da un pubblico italiano
prima di questa mia breve sintesi.
Però trovo interessante che questa polemica tutta africana
usi quanto c'è di comune tra le nostre storie come
strumento dialettico. Io comunque le ho ascoltate e le propongo
a voi perché credo che sia giusto e doveroso per noi
essere più attenti a quanto accade in quella parte
del mondo.
In entrambe le posizioni mi pare ci siano delle forzature:
difficile chiamare Adua una vittoria italiana, anche se Menelik
non riuscì a sloggiarci dal Tigrai. Certo un po' più
di solidità politica e culturale da parte nostra avrebbe
evitato di dare ad una sconfitta il valore di una disfatta
epocale. Ma la società italiana non era affatto unanime
nell'approvare le guerre coloniali e gli avversari di Crispi
non persero l'occasione di inneggiare a Menelik per le strade:
non condivido, ma le vite e i soldi spesi in guerre coloniali
non possono avere grande consenso in un paese con un Mezzogiorno
già allora in condizioni di sottosviluppo.
Se fossi abissino, comunque, mi tratterrei dal gloriarmi eccessivamente
per una vittoria ottenuta contro una
squadra così poco affiatata. Ed è indubbio
che l'esercito di Menelik fu duramente provato dallo scontro
di Adua ed incapace di assumere l'iniziativa per riconquistare
i territori perduti: questo probabilmente non equivale ad
una sconfitta, ma certo è una vittoria privata dei
suoi frutti materiali.
Senza nulla togliere alla grandezza della civiltà egiziana,
poi, vorrei solo far notare che i romani in Egitto ci sono
arrivati (e anche oltre se è per questo), e vi hanno
lasciato tracce indelebili, mentre gli egiziani a Roma no,
se non sotto forma di (altri) obelischi rubati e per interposta
persona di un eccentrico romano, Caio Cestio, che si fece
seppellire nella piramide che porta il suo nome.
Ma questi sono dettagli. Rimangono i conti in sospeso tra
africani. Non credo che il dott. Tseggai Isaac sia così
ingenuo da pensare che l'Italia possa improvvisamente riscoprire
la grandezza della propria civiltà e ricoprire autorevolmente
il ruolo di arbitro nel Corno d'Africa, né credo lui
stesso lo auspichi.
L'Eritrea moderna può aver bisogno di aiuti economici
(e chi non ne ha?) ma certo non necessita di tutori politici.
L'intervento del dott. Tseggai Isaac ha invece il sapore di
una provocazione per colpire l'orgoglio degli etiopici che,
in effetti, sulla vittoria contro i nostri sgangherati generali
ci hanno costruito un'identità nazionale e rinvigorito
la legittimità di una supremazia locale.
E' quest'ultima che al dott. Ghelawdewos Araia preme salvaguardare
e al dott. Tseggai Isaac ridimensionare, coinvolti come sono
in un conflitto sempre pronto a tornare guerra.
Da italiano, io mi accontenterei se la storia del nostro paese
venisse letta per quello che è e accolta per quel poco
o tanto (tanto, credo) può dare.
In realtà, la storia d'Italia è tanto mia quanto
di Tseggai Isaac e di Ghelawdewos Araia: è storia dell'umanità.
Spero almeno su questo i due si trovino d'accordo.
PS (chiedo scusa al lettore, ma ho dovuto riportare per esteso
i nomi dei due protagonisti della polemica perché non
ho saputo distinguere il nome dal cognome: spero apprezziate
questa mia pubblica ammissione di ignoranza...)
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