torna alla homepagetorna alla homepage
storia militare e cultura strategica
torna alla homepage
 
dalle discussioni
dell'area Warfare di MClink,
a cura di Nicola Zotti
 
home > storie > 4) il preludio della fine


ricognizioni
in territorio ostile


recce team

storie
strategia
tattica
what if?
vocabolario
documenti
segnalazioni
link
scrivici


quelle piccole sciabole incrociate

quelle piccole spade incrociate

Viaggi nei
campi di battaglia d'Italia
sulle carte del Tci


ANNIBALE TORNA IN AFRICA

4) Il preludio della fine

Nicola Zotti

Quando a Cartagine si seppe della sconfitta dei Campi Magni si diffuse un grande sconforto. Anche quell'ultimo embrione di esercito non esisteva più e non si avevano neppure speranze di poterne costituire un altro a breve termine. Siface e Asdrubale erano sopravvissuti, ma Scipione si era interposto tra loro e li aveva costretti a scappare in due direzioni diverse, separando per sempre i loro destini e con loro quelli di numidi e cartaginesi: per chissà quanto tempo non si sarebbe più potuto contare su Siface e sui suoi numerosi sudditi. Cartagine aveva ancora alleati ma non poteva comunicare con loro per chiamarli in aiuto: in tali condizioni doveva ancora una volta deidere in condizioni di emergenza.

Il partito contrario alla guerra si confrontava sempre più aspramente con quello Barcide, che era intenzionato a resistere e ricordava come, vivo Annibale, le speranze di vittoria fossero intatte. Le popolazioni puniche soffrivano disperatamente per il protrarsi della guerra e gran parte del territorio era ormai una landa devastata: non tutto era perduto, ma certamente non era più tempo per errori, ritardi e dubbi.
Il partito della guerra prese l'ultima e più grave decisione: richiamare Annibale e Magone per affidare ai due fratelli Barca le ultime speranze di salvezza.

Il destino di SIface e quello della Numidia

Abbiamo lasciato Scipione sul terreno della battaglia dei Campi Magni e lo ritroviamo all'alba del giorno successivo a meditare sul modo migliore per sfruttare la vittoria. Come detto poco sopra, il più importante successo strategico derivante dalla battaglia dei Campi Magni, era che tra numidi e cartaginesi era stato posto un cuneo che li divideva per sempre.
Ma Scipione sapeva altrettanto bene che più grandi erano le sue vittorie e più si avvicinava il momento decisivo: il ritorno di Annibale.
Allontanare Annibale dall’Italia, riportarlo in Africa, sconfiggerlo: questo era l’ambizioso piano che Scipione si era posto, ma per quanto il romano potesse essere ambizioso e sicuro di sé, non poteva certo guardare all’avverarsi di questo piano senza preoccupazione.
Se poi fosse stato inevitabile un confronto col cartaginese era bene partire avvantaggiati.
Dal suo accampamento – che i posteri chiamarono "Castra Cornelia" – non giungevano notizie preoccupanti.

Scipione pensò bene di dare un forte impulso al conflitto per eliminare definitivamente dalla scena uno dei protagonisti più scomodi: Siface. Infatti la Numidia era terra popolosa e sarebbe stata pronta nel breve volgere di qualche mese a mettere in campo nuove forze. Scipione non poteva permettere che questo accadesse, perché alimentava in Cartagine la speranza di poter proseguire il conflitto. Diede quindi un ampio mandato a Lelio e Massinissa perché non dessero tregua a Siface, consegnando loro la cavalleria e le fanterie leggere, mentre riservò per sé il compito di devastare la zona per mandare a Roma un altro po' di bottino.

Il suo luogotenente e l'alleato numida fecero nel complesso un ottimo lavoro, sconfiggendo Siface in una battaglia dove la cavalleria del re, superiore di numero, stava per avere la meglio su quella del suo rivale, ma venne mandata in rotta dal tempestivo intervento dei fanti di Lelio.

Come spesso avviene quando piove sul bagnato, Siface ebbe la sfortuna di essere disarcionato e catturato mentre cercava, intervenendo direttamente nel combattimento, di ribaltarne le sorti.

Se fosse riuscito, non diciamo a vincere la battaglia, ma almeno a sopravvivere alla sconfitta, indubbiamente avrebbe proseguito il conflitto, perché non si può dire che a quest'uomo mancasse la vis pugnandi. Siface esce quindi dalla nostra storia in catene e, se non dobbiamo certo prenderlo ad esempio per le sue qualità di stratega, è doveroso non di meno salutarlo con rispetto per il suo coraggio e per la lealtà che dimostrò nell'alleanza con Cartagine.

Possiamo immaginare la soddisfazione di Massinissa nell'avere finalmente a sua disposizione l'uomo che lo aveva perseguitato per tanti anni.

Vale la pena di interrompere un momento la narrazione per raccontare brevemente la burrascosa vita di questo uomo tanto importante per i successi di Scipione.
Il regno dei numidi massili faceva da cuscinetto tra i domini punici e il territorio dei numidi masesili. Quando Siface re di questi ultimi, entrò in guerra con Cartagine, Gaia, re dei massili e padre di Massinissa, strinse alleanza con questa, provocando una frattura profonda tra la propria tribù e quella di Siface, incrementata da una pesante sconfitta che proprio Massinissa inflisse a Siface.

Era inevitabile che quando le relazioni tra Cartagine e Siface si fecero amichevoli, chi per primi ne dovevano risentire erano proprio i massili.
L'occasione per intervenire contro di loro fu fornita da una complicata questione di successione dinastica causata dalla morte di Gaia: era uso tra i massili che il trono passasse al più anziano esponente della famiglia reale, dunque al fratello di Gaia, Oezalce. Quando anche questi poco dopo morì, il regno sarebbe stato destinato a suo figlio Capussa, più anziano di Massinissa. Ora, anche Capussa ebbe la sventura di morire, in un combattimento contro Mazetullo, un nobile numida avversario della casa regnante, che si autonominò tutore del fratello minore di Capussa, Lacumaze, e lo dichiarò re dei massili. A questo punto Massinissa, più anziano di Lacumaze, si fece avanti a pretendere il trono: e non vi avrebbe certo rinunciato facilmente. Il principe numida s'era distinto in molte azioni militari ed aveva appreso alla scuola dei cartaginesi l'arte dell'intrigo politico.
Assistito da una scorta di cavalleria che riuscì ad ottenere dai mauretani, entrò nel proprio regno da ovest, rimettendo assieme i vecchi soldati del padre. Con questi sconfisse Mazetullo e Lacumaze, nonostante fossero assistiti da milizie di Siface, e recuperò il proprio regno.

Ma non per molto, però, perché le divisioni tra i massili avvantaggiavano Siface e Cartagine, che oramai erano concordi nel desiderare la scomparsa di quello scomodo regno indipendente.
In breve Massinissa fu un fuggiasco inseguito per tutta l'Africa dalle truppe di Siface. Se la cavò per un pelo in un paio di occasioni e possiamo dunque comprendere l'ansia che aveva nel veder sbarcare l'armata di Scipione il quale, se non poteva garantirgli la riconquista del regno, almeno avrebbe reso la sua sopravvivenza un po' meno precaria.

La sua decisione di parteggiare per Roma si rivelava saggia, e ancora più avveduta si dimostrava quella di Scipione di farselo alleato, perché con nessun altro africano, avrebbe mai potuto stabilire quella fiducia e quella comunanza di interessi senza i quali la sua impresa sarebbe rimasta isolata tra l'indifferenza, quando non l'aperta ostilità, delle popolazioni locali.
Massinissa pensò di approfittare della cattura di Siface utilizzandolo come chiave per aprire le porte della sua capitale: prendendo alla lettera la libertà di decisione che Scipione aveva accordato a Massinissa e a Lelio, i due decisero di comune accordo che il numida avrebbe preso con sé la sola cavalleria e si sarebbe precipitato a Cirta alla massima velocità per conquistarla prima che il figlio di Siface, Vermina, potesse organizzare una difesa, mentre Lelio lo avrebbe seguito a passo più lento con la fanteria. E' un po' difficile trovare una giustificazione a tutta questa fretta, perché altre città, durante la campagna, dopo una vittoria romana avevano aperto le porte anche senza lo sgomento di vedersi apparire davanti il proprio re in catene: probabilmente si trattava solo di un espediente dell'astuto Massinissa per non dover condividere con le truppe romane il prestigio della vittoria, un sentimento comune a tutti coloro i quali ritornano da vincitori in un paese che li aveva visti sconfitti.

Questa decisione, però, ebbe una spiacevole conseguenza. Massinissa entrò a Cirta con le sue truppe e Siface, e qui trovò ad aspettarlo Sofonisba.
La fanciulla doveva essere molto bella, o forse fu commovente nelle sue suppliche, o forse incise il carattere focoso dei numidi, fatto sta che Massinissa non solo le promise che non l'avrebbe mai consegnata ai romani, ma addirittura la sposò.

Appena Lelio giunse a Cirta, comprese la gravità della cosa e cercò di strappare la donna dal letto nuziale: uno scontro tra i due fu evitato solo rimandando il problema al giudizio di Scipione.
Questi non impiegò molto a prendere una decisione: ci mise anche una buona parola Siface che addebitò una parte cospicua delle sue colpe al fascino perverso di Sofonisba, definendola "peste" e "furia". Massinissa fu costretto a recedere, ma non volle rompere il patto con la giovane, facendole giungere un veleno affinché si suicidasse per non cadere in mano romana. Così Sofonisba fu sacrificata in un colpo solo alla ragion di stato e alla storia, aggiungendosi a quella nutrita galleria di donne alle quali molti uomini hanno addebitato i propri errori e le proprie sfortune. Con tutta probabilità non era che una ragazzina, buttata dal proprio padre tra le braccia di un uomo già anziano a suggello di un'alleanza politica. E la sua morte, voluta da Scipione più per dimostrare a Massinissa chi era il padrone, che non per il timore che la donna fatale potesse fargli disertare il campo.

Cartagine richiama i suoi generali

Siamo all'inizio dell'estate del 203: in due-tre mesi Scipione ha ucciso più cittadini cartaginesi di tutti gli altri generali romani messi assieme.
I primi a rendersene conto, come abbiamo visto in precedenza, sono i cartaginesi stessi, che si risolsero a richiamare Annibale e Magone per giocarsi l'ultima carta che aveva a disposizione per cacciare Scipione dall'Africa.

Magone ricevette l'ordine di tornare quando aveva già deciso di farlo per conto suo: era stato sconfitto in una battaglia che aveva visto i legionari prevalere in modo decisivo sui suoi mercenari benché gli elefanti sbaragliassero la cavalleria romana: egli fu anche gravemente ferito e morirà in mare mentre era in viaggio verso l'Africa. Nonostante la sconfitta, i suoi uomini si erano però battuti con onore, come testimonia il buon numero di loro che raggiunse Cartagine.

Mentre si attendeva il ritorno dei due fratelli Barca, a Cartagine non si intendeva rimanere con le mani in mano e venne finalmente messo in atto un proposito studiato e preparato da molto tempo: un attacco da parte di mare con la flotta, per staccare il cordone ombelicale che legava l'armata romana con la sua base in Sicilia.

Quanto avrebbe pesato sul prosieguo della campagna questa azione è difficile dirlo: dipendeva dall'entità del successo e soprattutto da quanto tempo sarebbe durata l'interruzione.

Ad ogni buon conto, i cartaginesi non furono particolarmente solerti nei preparativi e quindi la loro flotta salpò proprio nel momento in cui Scipione, di ritorno dai Campi Magni, compariva minaccioso a Tunes, intenzionato a portare davanti agli occhi di Cartagine tutta la propria forza.
Scipione dunque vide la flotta cartaginese allontanarsi e ne comprese le intenzioni: forse era stato preso in controtempo o forse no: per inettitudine o per sfortuna, la flotta cartaginese diede il tempo a Scipione di organizzare una risposta.

I cartaginesi arrivarono nel golfo di Utica che Scipione aveva già concluso la costruzione di una tripla cinta di navi onerarie legate le une alle altre saldamente in modo che formassero una stabile piattaforma. Poi assegnò alla sua difesa 1.000 uomini con armi da lancio, ben forniti di proiettili.
Contro questa difesa improvvisata, i cartaginesi si accanirono a lungo, ma tutto quello che riuscirono a rimediare furono 60 imbarcazioni mercantili, strappate a fatica dal resto del complesso difensivo. Con quelle tornarono a Cartagine salutati dall'entusiasmo della folla: in effetti, per quanto misero, era il primo successo cartaginese in un anno.

Per nulla avvilito dalla "severa lezione" impartitagli dalla flotta cartaginese, Scipione ritornò subito a Tunisi, per riprendere tranquillamente il filo dei suoi progetti strategici. A raffreddare i facili entusiasmi dei cartaginesi, arrivò l'annuncio della sconfitta e della cattura di Siface. Era la fine di quel tenue filo di speranza che ancora permetteva a Cartagine di contare sull'aiuto di un alleato.

Scipione verso l'autunno del 203 pose nuovamente il campo a Tunisi e allora il terrore si diffuse rapidamente negli animi dei cartaginesi. Annibale e Magone erano lontani, e a questo punto il loro sbarco non era nemmeno molto semplice; truppe in Africa per il momento era impossibile metterne assieme, anche perché non c'era un posto dove potessero radunarsi senza che Scipione non fosse in grado di raggiungerle e disperderle; le campagne erano in balìa dei romani che potevano fare il bello e cattivo tempo senza che nessuno potesse opporglisi. Non rimaneva che chiedere la pace: la fazione barcide, capeggiata da Asdrubale, fu messa in minoranza ed una delegazione inviata da Scipione per le trattative.
Il comandante romano pose condizioni durissime, che decretavano in pratica la fine dell'indipendenza e della prosperità di Cartagine, ma almeno ne consentivano la sopravvivenza. Scipione calcolò bene l'esasperazione dei cartaginesi ed ottenne il massimo: era anche suo interesse che la guerra terminasse ora e con una tale vittoria. Infatti, aveva in mano un risultato non preventivabile da nessuno: la pace e la fine della guerra in Italia senza essere stato messo alla prova contro Annibale.

L'ombra del comandante cartaginese era gravata sulla scena per tutta la durata della campagna: il suo ritorno in Africa era lo scopo principale di Scipione. E ora che le proposte di pace viaggiavano verso Roma (Siface vi era già giunto prigioniero del luogotenente Lelio), dove il Senato era ansioso di ratificarle, dobbiamo chiederci quale fosse il suo stato d'animo.

Lo conosciamo fiducioso nei propri mezzi ai limiti dell'arroganza, conoscitore dell'animo umano fin quasi alla manipolazione, realista fino a sfiorare il cinismo: doveva aver accolto con disincanto i negoziatori cartaginesi, compiacendoli con un trattato che forse alleviava un po' le sofferenze del loro popolo, ma non sarebbe mai stato abbastanza solido da reggere all'arrivo di Annibale.

< 3) La battaglia dei Campi Magni