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LA BATTAGLIA CHE DECISE LE SORTI DEL MONDO

5) La battaglia di Zama

Nicola Zotti



Annibale abbandonò l'Italia nell'autunno del 203. Non lo fece volentieri, ma ormai non aveva più scelta: ridotto in un angolo del Bruzio, circondato da forze preponderanti che non era in grado di contrastare, vedeva di giorno in giorno diminuire i propri alleati e le proprie forze in scaramucce ed assedi, in una guerra di logoramento nella quale il suo genio non sarebbe mai potuto brillare. Imbarcò solo i migliori tra i suoi uomini su quel poco naviglio che riuscì a reperire probabilmente sacrificando i cavalli e gli animali da soma.

Finiva così dopo 15 anni la sua permanenza in Italia e si accingeva, per la prima volta in 36 anni, a rimettere piede in patria: lui che era stato sul punto di condurre Roma alla rovina, ora era chiamato a salvare Cartagine dallo stesso pericolo.
Che cosa rappresentassero per Annibale quella città e i suoi cittadini, dopo tutto questo tempo passato in altre terre, nessuno può dirlo. Certo è che i cartaginesi conoscevano il valore di Annibale ma non lo amavano, si affidavano a lui, ma lo temevano: davanti al senato romano i messi di Cartagine che chiedevano la pace giunsero al punto da dichiarare che la guerra era tutto un equivoco: una questione personale scatenata da Annibale che aveva disobbedito agli ordini della città. Qualsiasi sentimento si agitasse nell'animo di Annibale mentre il suo convoglio attraversava il Mediterraneo, su una cosa sola non ci potevano essere dubbi: la guerra continuava. In sé aveva l'energia per riaccenderne il fuoco e per mare stava viaggiando il combustibile per alimentarlo: i veterani suoi e di Magone. In Africa, poi, Vermina figlio di Siface era ansioso di riconquistare il proprio trono.

La speranza dei cartaginesi

Era inevitabile che l'arrivo di rinforzi numerosi ed agguerriti, e soprattutto quello di un comandate d'eccezione come Annibale, mutasse l'animo dei cartaginesi, restituendo loro quelle speranze che solo poche settimane prima avevano perduto.
Le truppe di Magone arrivarono subito dopo quelle di Annibale, e furono almeno in gran parte avviate là dove quest'ultimo era sbarcato ponendo la sua base operativa, ad Hadrumentum. Sotto questa luce i patti stretti con Scipione non apparvero più né convenienti né tollerabili ad una gran parte del popolo cartaginese.
Dei mesi trascorsi dall'inizio della tregua, Scipione aveva approfittato inviando Massinissa a risolvere i suoi problemi in Numidia, consegnandogli un contingente di fanteria e cavalleria romana per sostenere con più argomenti le proprie ragioni. Massinissa, combattendo contro Vermina si era spinto molto in là, fino ai confini della Mauretania.
Verso la primavera del 202, dunque, le forze di Scipione erano divise e distanziate da settimane di marce intense ma, nonostante questo, affrontò la crisi che preludeva alla riapertura delle ostilità con grande decisione e fermezza.

Un convoglio di 30 da navi guerra e 200 navi onerarie cariche di rifornimenti per Scipione, fu travolto da una tempesta e disperso. Le onerarie giunsero con il loro prezioso carico proprio sotto gli sguardi tanto affamati quanto risentiti dei cartaginesi e vennero subito poste sotto sequestro. Sarebbe stato giusto restituirle al legittimo proprietario, anche perché si trattava di navi sbandate e non di relitti, e soprattutto sarebbe stato saggio farlo se si intendeva tutelare la pace: proprio in quelle ore a Scipione erano giunte notizie, subito comunicate ai cartaginesi, che il senato romano aveva ratificato gli accordi di pace. Né l'uno né l'altro motivo sembrarono sufficienti: la guerra riprendeva, e Scipione non esitò un momento a prenderne atto.

La sua situazione, al momento, non era però delle migliori: se Massinissa aveva con sé, per ipotesi, 4.000 fanti e 1.000 cavalieri romani, Scipione non può contare che su circa 20.000 uomini coi quali deve fronteggiarne almeno 35.000 tra liguri, galli, mauretani, balearici, numidi, italici di varie etnie, disertori romani, libici e persino cartaginesi. Senza contare poi 80 elefanti.
Il solo Livio parla anche di 4.000 macedoni, ma è notizia poco credibile, visto la misera condizione dei macedoni sul suolo patrio
.
Lo spettro di Fabio Massimo, morto da poco, sembrava prendersi la sua rivincita e a Roma molti scuotevano la testa: Scipione stava per affrontare «...non Siface, re di gente barbara e rozza [...] oppure Asdrubale, comandante noto per le sue fughe, oppure eserciti raccogliticci adunati in fretta con una folla mezzo armata di contadini, ma avrebbe dovuto affrontare Annibale [...] divenuto vecchio in mezzo alle vittorie [...] ed un esercito mille volte cosparso di sangue romano» (Livio, XXX 28 3-5).

Il momento della decisione

Siamo all'inizio della buona stagione del 202.

Scipione abbandonò i Castra Cornelia per penetrare con decisione verso l'interno, conquistandone le città e devastando spietatamente i territori: non chiedeva né accettava rese e i prigionieri venivano posti in schiavitù. Seguendo la valle del Bagradas proseguì così per settimane e settimane.

Venne raggiunto dai 600 cavalieri del numida Dakamas, ma Massinissa, impegnato a fondo dai resti dell'esercito di Siface, ritardava all'incontro: nonostante il concreto aiuto che gli fornivano le truppe romane, non riusciva a prevalere su Vermina, che resisteva strenuamente e cercava con tutte le proprie risorse di sostenere ancora la causa cartaginese. Altri capi tribali numidi, come Mazetullo, erano riusciti già a raggiungere Annibale: in particolare si unì a lui Ticheo, parente di Siface, con i 2.000 cavalieri più combattivi d'Africa.

Erano così importanti per entrambi questi rinforzi numidi? La battaglia tra questi due geni dell'arte militare sarebbe stata decisa da mille cavalieri in più o in meno? O la manovra di Scipione era più complessa ed articolata?

Le devastazioni di Scipione provocavano a Cartagine reazioni violentissime: erano disperse e annientate le ricchezze dei grandi proprietari terrieri e dei mercanti cartaginesi, che troppo avevano fino ad allora sofferto per la guerra e non riuscivano a sopportare questa improvvisa escalation nella violenza del conflitto, tanto più impressionante in quanto giunta quando si pensava che qualsiasi limite di orrore fosse stato già superato.

Cartagine chiedeva dunque ad Annibale di rompere gli indugi e di passare all'offensiva per fermare questo scempio prima che non ci fosse più niente da salvare.

Ma Annibale rimaneva sordo a queste richieste, impassibile nella sua base di Hadrumentum, continuando ad addestrare con cura le sue milizie, e rispondendo gelidamente che i cartaginesi lasciassero fosse lui ad occuparsi della gestione delle cose della guerra.

Annibale valutava la situazione da un punto di vista che ai suoi concittadini sfuggiva.

La sua immobilità era quella di un animale predatore che aspettava il momento più opportuno per intervenire. Non era ignavia: era attesa ansiosa che a ovest si risolvesse il confronto tra Massinissa e Vermina: la stessa attesa che viveva Scipione.

Annibale e Scipione sono due velocisti in surplace: che cercano di sorprendere l'avversario con uno scatto ben piazzato: e partire con scarso tempismo sarebbe stato fatale.

E Annibale partì all'improvviso verso Scipione, muovendosi in modo da ridurre la distanza che divideva la sua armata dall'alleato numida, minacciando nel contempo anche le linee di comunicazione di Scipione. Giunse così fino a Zama, a circa 140 chilometri in linea d'aria tanto da Hadrumentum quanto da Cartagine. La prima preoccupazione di Annibale era di localizzare il nemico verificando se Massinissa – del quale non aveva notizie, come non ne aveva di Vermina – non si fosse già ricongiunto con esso. Diede incarico a tre esploratori di accertare la situazione: ed essi ottennero le notizie che il comandante cartaginese cercava, ma non come si sarebbe aspettato.

Le tre spie, infatti, furono catturate e condotte a Scipione, ma questi non le passò per le armi, bensì fece fare loro un giro turistico dell'accampamento e solo quando questi gli assicurarono di aver tutto ben visto e compreso, li congedò, fornendo loro anche una scorta affinché ritornassero senza rischi dal loro comandante.

Allo stesso modo si erano comportati tanti altri generali dell'antichità: non era un gesto di cortesia, ma un modo per esercitare una pressione sugli avversari.

Serse, ad esempio, lo aveva fatto per mostrare al nemico tutta la propria potenza ed intimorirlo: Scipione, probabilmente per il motivo opposto: voleva far sapere ad Annibale che Massinissa non c'era ancora. E' un complicato gioco psicologico: perché Massinissa stava effettivamente per arrivare e Scipione dunque col suo comportamento dava ad Annibale un'informazione esatta sì, ma solo ancora per poco tempo.

Dobbiamo credere che Annibale valutò con acutezza il gesto del romano: non era uomo da lasciarsi incantare, anzi, forse fu anche irritato da tanta sfrontatezza ed insolenza. Ma se era un bluff l'unico modo di scoprirlo era andare a vedere: e questo volle fare, chiedendo un colloquio a Scipione.

Un evento eccezionale, unico nella storia: forse Annibale sperava di recuperare la pace, ammorbidendo le dure condizioni dell'accordo appena rotto, forse contava di poter piegare Scipione, od almeno intimorirlo, con il peso del proprio carisma, forse era solo curioso di guardarlo negli occhi.

Scipione accettò la proposta di un incontro nel momento stesso in cui finalmente arrivava Massinissa coi suoi uomini: ma non era ancora pronto per effettuarlo.

L'iniziativa stava sfuggendogli dalle mani e doveva prima riprenderla.


Scipione è comandante di rara raffinatezza strategica: il suo movimento è quello che si dice "per linee indirette": ma più indiretto di così, proprio non si potrebbe. Compì un altro balzo verso l'interno, fino nei pressi di Narraggarra. E quindi annunciò ad Annibale che si poteva iniziare a discutere di quale fosse il luogo migliore per i colloqui.

Immaginiamo la perplessità di Annibale di fronte a questa inaspettata mossa di Scipione: era evidente che era stato nuovamente preso d'anticipo e costretto a decidere in condizioni imposte dall'avversario. Egli sa che Vermina è lontano, ed è incerto sulla posizione di Massinissa, non ha più molte possibilità di scelta.

Annibale seguì Scipione verso ovest, spostando il proprio campo nei pressi di Sicca Veneria: riteneva, infatti, che se Massinissa aveva raggiunto i romani, il rischio di dare battaglia non fosse minore di quello di atteggiamenti meno decisi. Entrambe le armate sono così lontane dalle loro basi che è come se non ne avessero: ma mentre per Annibale Cartagine o Hadrumentum erano un perno solido per la manovra e sarebbero state un rifugio sicuro in caso di sconfitta, per Scipione i Castra Cornelia rappresentavano nient'altro che un misero punto di imbarco.

Scipione non solo ha annullato un vantaggio del nemico, risultato di per se stesso apprezzabile, ma ne ha anche ottenuto uno di grande portata psicologica e materiale: ha costretto il nemico a cercare la battaglia ed egli può dunque offrirla alle condizioni che più riterrà opportune.

L'incontro tra i due ci viene descritto sia da Polibio che da Livio. E' difficile parlarne senza sentire il rumore della Storia entrarti nelle orecchie. A poca distanza l'uno dall'alto ci sono due uomini di eccelsa statura non solo militare ma umana. Il busto di Scipione ai Musei Capitolini è, per un felice caso, nella "Sala dei Filosofi" e lo stesso Annibale avrebbe il diritto di figurarvi, essendo ben lontano da quel soldato rozzo, avaro e sanguinario che il risentimento romano cercò di tramandarci.

Il suo discorso è una riflessione solcata da una sottile disincantata amarezza, che ci consegna un Annibale capace di guardare a se stesso ed alla propria storia con distacco per trarne considerazioni valide tanto per Scipione quanto per noi.

Suggerisce al romano con serena ma severa fermezza di abbandonare i propositi di guerra, di non tentare la fortuna ancora una volta, ma di addivenire ad una pace più giusta per Cartagine, perché "oggi sei tu quello che io fui a Trasimeno e a Canne" (Livio XXX 30 12).

Annibale ha 45 anni, Scipione 33: la differenza di età si sente: ma è la diversa condizione strategica a suggerire la risposta di Scipione: fredda e logica senza margini di compromesso: era la risposta di chi si sentiva forte e superiore, era la guerra.

Annibale doveva dunque valutare la sua posizione per la battaglia che di lì a poco avrebbe deciso le sorti del conflitto. La sua fanteria era divisa in tre contingenti sostanzialmente equivalenti di numero. In ordine decrescente di importanza: 12.000 veterani portati con sé dall'Italia, altrettanti mercenari di Magone, di cui 2000 i frombolieri balearici; un numero forse lievemente maggiore di reclute cartaginesi.

Per la cavalleria poteva contare innanzitutto sui cavalieri veterani portati dall'Italia, ai quali aveva trovato delle monte in Africa, forse mille; su forse altri mille cavalieri cartaginesi di incerto valore; e sui valenti 2.000 cavalieri di Ticheo. Infine il suo asso nella manica erano 80 elefanti africani delle foreste, più piccoli di quelli delle savane, ma comunque assai pericolosi.

A sud ovest di Sicca Veneria in una vasta pianura dove la cavalleria ha ampi spazi di manovra, gli eserciti si stavano schierando.

La battaglia di Zama


Annibale schierò il suo esercito su tre linee: nella prima erano i vari nuclei di mercenari, nella seconda, a poca distanza, le reclute, e infine, ad oltre uno stadio (178 metri) da questa, la terza ed ultima linea composta dai veterani. All'ala sinistra presero posto i numidi di Ticheo, alla destra la cavalleria pesante. Davanti a tutti dispose gli elefanti, probabilmente insieme ai frombolieri balearici.

Lo schieramento è suggerito ad Annibale dalla qualità delle sue truppe e, in qualche modo, vincolato ad esse. Ai mercenari può chiedere un impeto iniziale che si sommi a quello degli elefanti, ma non resistenza ad oltranza: i mercenari galli o liguri erano sempre stati travolti dai legionari, a differenza, ad esempio, dei più ostinati celtiberi.

Dalle reclute non può attendersi molto: possono affrontare i romani solo dopo che questi siano stati opportunamente ammorbiditi. Ai veterani, infine, può affidare non solo e non tanto il colpo decisivo, ma anche qualche tentativo di manovra tattica: non così complicate come quella di Canne, ma sufficienti a rispondere alla temuta manovra di aggiramento di Scipione: che però, probabilmente, Annibale ipotizza essere sul tipo di quelle spagnole e forse solo teme sia stata resa più pericolosa dal suo eccezionale avversario.

La profondità dell'esercito cartaginese, dal primo degli elefanti all'ultimo dei veterani è forse anche 300 metri (500 dai romani), una distanza enorme per l'epoca e mai raggiunta prima.

Lo schieramento di fanteria è studiato affinché lo sforzo sia differenziato tra le truppe, e ciò deve indurci a riflettere su come Annibale intendesse effettuare il passaggio dello scontro da una linea all'altra. Per certo non lo sappiamo, perché i resoconti della battaglia ci aiutano assai poco.

Per esclusione possiamo solo dire che se si considera complicato da attuare lo scambio tra manipoli di hastati e principes, che pure erano addestrati lungamente a questo compito, a maggior ragione questa ipotesi va scartata nel caso dei mercenari barbari e delle reclute cartaginesi: che tra l'altro non parlavano nemmeno la stessa lingua. Se, poi, si è disposti a considerare la difficoltà tecnica e psicologica insita nella manovra adottata ai Campi Magni dalle legioni, oltre che la sua originalità, anche in questo caso dobbiamo rigettare l'ipotesi che Annibale pensasse di far scorrere sui fianchi dei mercenari le sue reclute, e probabilmente neppure i veterani.

Non rimane dunque che l'ipotesi più semplice e naturale, la stessa che viene considerata abituale per l'intervento dei principes: l'opposizione dei ranghi, ovvero non un subentro di linee, ma un semplice sostegno reciproco o al massimo una giustapposizione.

Questa ipotesi, però, non coinvolge i veterani, che sono troppo distanziati dalle altre linee per poterle soccorrere: la spiegazione l'avremo nel corso della battaglia.

Elefanti e mercenari costituiranno due onde d'urto successive, le reclute cartaginesi forniranno un sostegno e un rincalzo, in riserva i veterani inizieranno una battaglia nuova, scontrandosi contro forze romane logorate.

Sulla propria cavalleria Annibale non ripone molte speranze perché ne conosce l'inferiorità numerica: se l'apporto degli elefanti sarà quello che auspica, però, almeno sarà sufficiente a neutralizzare quella romana e a ridurre la battaglia ad uno scontro tra fanterie, nel quale prevarranno quelle più fresche.

Scipione schierò i suoi uomini sulle consuete tre linee, ma anziché alternare i manipoli nell'usuale formazione a scacchiera, diede disposizioni affinché i manipoli di principes prendessero posto alle spalle degli hastati: con questo stratagemma Scipione intendeva creare dei canali di scorrimento per gli elefanti, che lo preoccupavano non poco, perché nessuno tra i suoi uomini, per quanto veterano, poteva essere abituato alla carica di 80 pachidermi. E per essere sicuro di indirizzare gli animali in quei corridoi, utilizzò i velites come esca: sarebbero stati loro ad assorbire il primo impatto con gli elefanti.

All'ala destra, dispose Massinissa con i suoi 3000 numidi, alla sinistra Lelio con la cavalleria romana ed italica (in tutto non più di 2.000), e forse un po' di altri numidi.

Dopo qualche schermaglia tra numidi, Annibale aprì le ostilità ordinando agli elefanti di caricare: confidava che gli animali sarebbero riusciti a provocare nella prima linea romana uno scompiglio sufficiente ad avvantaggiare l'attacco, subito successivo, che doveva essere portato in successione dalle altre due linee.

Le cose, però, non andarono esattamente così: una parte degli animali, spaventati dai suoni dei corni provenienti dalle fila romane, si rivoltò contro le linee cartaginesi travolgendo la cavalleria di Ticheo. Massinissa ne approfittò con grande tempismo, caricando e ponendo in fuga il nemico disordinato. In condizioni simili, dall'altro capo del campo di battaglia, Lelio mandava in rotta la cavalleria pesante avversaria e così, già nella prima fase della battaglia, la linea cartaginese non aveva più protezione sui fianchi

I fuggiaschi sfilarono lungo tutta la profondità della formazione cartaginese e scomparvero inseguiti dalla cavalleria romana fuori dal campo di battaglia. Se già non se ne era accorto, Scipione ora è stato informato dai suoi luogotenenti sullo schieramento distanziato dei veterani. Non è una buona notizia, perché gli impediva la famosa manovra di aggiramento, almeno fino a quando non fossero state sconfitte le altre due linee di fanteria.

Gli elefanti ebbero più successo al centro, ma non poi tanto, che fu la parte spendibile dell'esercito romano, i velites, a pagare il prezzo più pesante, mentre hastati e principes uscirono indenni o quasi dagli effetti devastanti della carica.

Scipione ha ottenuto un primo risultato: la sua linea è rimasta ordinata, gli hastati sono integri e i principes non sono stati coinvolti.

I due schieramenti ora avanzarono l'uno verso l'altro, ad eccezione dei veterani cartaginesi che tennero la posizione: quindi la loro distanza dalla linea di combattimento aumenta a circa 400 metri.

Sulle prime i mercenari riportarono qualche successo, ma era un successo fragile. La loro linea, infatti, non aveva tutta la medesima consistenza: resisteva e combatteva a seconda della nazionalità e delle caratteristiche di ciascuno: i galli essendo diversi dai liguri ed entrambi diversi dai mauretani e dai balearici.



Ne nacque così una mischia assai confusa, con grandi varchi che si aprivano nella formazione di mercenari che permettevano agli hastati (o forse agli stessi principi) di attaccare ai fianchi i nemici più caparbi. La formazione delle reclute non intervenne subito a sostenere queste unità mercenarie minacciate da più lati, perché il fronte era ingombro di fuggitivi, e non concesse a questi ultimi di attraversarla per porsi in salvo, in modo da non far disordinare i propri ranghi: si originò qualche scaramuccia tra mercenari e reclute, che deve aver suggestionato ben oltre la sua reale importanza i testimoni della battaglia tanto da venire enfatizzata da Polibio.

Comunque, appena ebbero il fronte sufficientemente libero, alcuni reparti di reclute si unirono alla mischia chiudendo il contatto con gli hastati, proprio laddove questi erano più disordinati per aver cercato di avvantaggiarsi della fuga dei mercenari: qua e là, dunque, qualche manipolo di hastati non doveva aver ancora recuperato la posizione e la saldezza e dovette chiedere il supporto dei principes per reggere all'impeto, non certo altrimenti insostenibile delle reclute.

Questa fase della battaglia deve essere durata pochi minuti: dobbiamo tentare di figurarci il caos nelle due linee cartaginesi ora mischiate, il disordine e la concitazione degli hastati, la tensione dei principes.

Pochi minuti ma terribili, perché la lotta era spietata e si svolgeva in spazi ristretti. Sono momenti drammatici, ma ancora una volta i romani riescono a prevalere in virtù del loro migliore addestramento individuale e del loro armamento.
I mercenari, duramente provati, finalmente fuggirono e le reclute con loro. Di queste ultime, però non tutti sono stati impegnati e il loro ripiegamento soprattutto se iniziato con un certo anticipo deve essersi svolto in modo sufficientemente ordinato e composto da non trasformarsi in rotta: tale inevitabilmente sarebbe stata se il collasso fosse stato improvviso.

Così i soldati delle due prime linee cartaginesi, chi fuggendo chi indietreggiando, abbandonano la linea di combattimento. Gli hastati, i più coinvolti psicologicamente e fisicamente nella lotta, esultano e si danno all'inseguimento: è un errore e se l'esperienza precedente non li ha istruiti, ha messo, però, sul chi vive Scipione che è pronto a spendere ogni energia sua e del suo apparato di comando per richiamarli e trattenerli, impedendogli di sfiancarsi correndo per i 400 metri che li separano dai veterani cartaginesi.

Questi a loro volta, però, non possono approfittare dello sbandamento romano: sono lontani e bloccati dalle unità amiche in fuga.

Il combattimento qui ha una pausa, durante la quale le formazioni contrapposte affrontano una riorganizzazione: Annibale riesce a riprendere sotto il suo controllo alcune delle unità di reclute e di mercenari, anche in virtù della distanza che ha lasciato tra la prima e l’ultima linea. Una distanza sufficiente non solo a compiere qualche manovra, ma anche a permettere che i fuggitivi fossero riorganizzati e convinti a tornare al combattimento.

Con queste unità estende il proprio fronte, allineandole ai fianchi dei veterani.

Scipione, invece, una volta riorganizzati gli hastati può finalmente far compiere ai suoi legionari la tanto celebrata manovra di movimento sui fianchi: non per aggirare il nemico, ma solo per estendere da un lato e dall'altro il fronte degli hastati. In linea teorica, data una distanza percorsa di 750 metri, sono sufficienti circa 8-10' per eseguirla.

Il combattimento, quindi, sta per conoscere un'ultima decisiva fase: i veterani ancora freschi se la vedranno con gli hastati, che freschi non sono, e con principes e triares, che invece hanno molte energie da spendere.

La fronte romana è probabilmente di ugale entità rispetto a quella cartaginese, o forse lievemente superiore: in entrambi i casi triari e principes si trovano a combattere sulle ali contro forze più provate e quindi sono in condizioni di grande vantaggio.

Il combattimento si riaccende tempestosamente e le sue sorti rimangono sospese.


Non per molto, però, perché Lelio e Massinissa, forse da tempo ai margini del campo di battaglia ad aspettare proprio questo momento, tornano dall'inseguimento e piombano alle spalle dei cartaginesi decretandone la fine.

Si conclude così la battaglia, seppellendo le speranze di Cartagine ed elevando Roma ad incontrastata dominatrice del Mediterraneo. Da quel giorno in poi Publio Cornelio Scipione sarebbe stato conosciuto con l'appellativo di Africano: e con quel nome lo ricordiamo noi oggi.

< 4) Il preludio della fine