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SCIPIONE IMPONE AL SENATO LA PROPRIA STRATEGIA

1) La decisione strategica

Nicola Zotti

La svolta: Il Metauro e la Spagna

Dopo che la strategia temporeggiatrice di Fabio Massimo era riuscita a risollevare le sorti di Roma dalle terribili sconfitte subite al Trasimeno (217) e a Canne (216), il corso della Seconda Guerra Punica aveva avuto una svolta con la vittoria romana sul Metauro (207).

Asdrubale di Amilcare era stato sconfitto mentre cercava di portare aiuto al fratello Annibale.

Il grande cartaginese aveva bisogno di rinforzi, ma necessitava in modo ancora maggiore del sostegno di un altro comandante: un generale dell'abilità e dell'esperienza del fratello, alla testa di truppe numerose e combattive, poteva infatti costituire quell'elemento di manovra indispensabile per ribaltare finalmente, e definitivamente, le sorti del conflitto. Roma sarebbe stata presa in una tenaglia e questa volta non si sarebbe salvata: i suoi alleati italici le avrebbero sottratto l'appoggio e la sua sorte sarebbe stata segnata.

La minaccia fu sventata da un'audace e geniale manovra per linee interne, la prima della storia militare, del console Claudio Nerone. Nella battaglia che ne costituì il culmine, sulle sponde del fiume Metauro, nonostante l'abilità e il coraggio mostrate da Asdrubale, il suo esercito fu sconfitto.
La testa del comandante cartaginese fu tagliata e recapitata ad Annibale dal console Nerone: si dice che la vista della testa del fratello gli fece presagire tutte le sciagure che sarebbero seguite.

Annibale fu costretto a ridurre il proprio raggio di azione e per oltre un anno evitò sistematicamente qualsiasi scontro con i romani: i quali per parte loro ripresero a temporeggiare già soddisfatti dallo scampato pericolo.
Le conseguenze della sconfitta di Asdrubale avevano però una loro radice anche nel lontano suolo di Spagna. Un'importantissima decisione strategica del Senato, forse la più importante di tutto il conflitto, perché portò in pratica alla nascita dell'imperialismo romano, aveva inviato in Spagna nel 210 Publio Cornelio Scipione, un comandante di appena 24 anni ma già molto esperto, avendo alle spalle ben 7 anni di servizio militare.
Il suo omonimo padre Publio era stato ucciso nel 212 nella battaglia di Castulo, sempre sul suolo iberico, dagli stessi generali che il figlio avrebbe dovuto affrontare: Asdrubale di Giscone, e i fratelli di Annibale, Magone e Asdrubale di Amilcare.

Il condottiero romano assolse brillantemente il compito, conquistando l'importante base di Nuova Cartagine e indebolendo con la vittoria di Baecula nel 208 la consistenza delle truppe che Asdrubale doveva condurre in Italia in soccorso del fratello e compromettendo in partenza le sue speranze di successo.

Asdrubale di Giscone e Magone Barca rinnovarono nel 206 l'offensiva contro la presenza romana in Spagna, che ostacolava i loro progetti di minacciare da nord il territorio italiano. Alla battaglia di Ilipa, nel 206, il comandante romano sconfisse decisamente anche Asdrubale di Giscone ponendo praticamente fine alla dominazione cartaginese in Spagna, e Magone si ritirò a Minorca. Nel periodo successivo, un contingente di due legioni romane rimase a contrastare nella regione le forze cartaginesi ed i loro alleati, ma il pericolo si era drasticamente ridotto e la Spagna non rappresentò più per i cartaginesi quell'inesauribile serbatoio di uomini e quella tranquilla base di addestramento che Amilcare Barca aveva creato e suo figlio Annibale aveva posto a fondamento del proprio successo. Rientrato a Roma, era inevitabile che Scipione venisse immediatamente nominato console per il 205: da questa posizione Scipione poteva imprimere una svolta definitiva alla Seconda Guerra Punica, assegnando a Roma quel ruolo di prima potenza nel Mondo che rimarrà assoluto ed incontestato per molti secoli a venire.

Un problema strategico e uno tattico

La situazione strategica volgeva decisamente a favore di Roma, ma rimaneva ancora più densa di ombre che di luci. Il pericolo maggiore, infatti, continuava ad essere rappresentato da Annibale.
Il comandante cartaginese dopo la battaglia del Metauro aveva visto ridotta la propria libertà d'azione. Le uniche basi e gli unici alleati che gli rimanevano erano nelle impervie montagne del Bruzio. Si trattava di popolazioni bellicose che avevano mal sopportato la supremazia di Roma, decidendo di seguire il più mortale dei suoi nemici in un'avventura che doveva apparire disperata anche ai meno avveduti tra loro.


Un imponente dispositivo era schierato contro Annibale. Un contingente di 2 armate consolari al completo, ovvero 4 Legioni più gli alleati, è dislocato lungo il confine col Bruzio con il compito di affrontare Annibale e di sconfiggerlo, mentre un'altra armata consolare di 2 Legioni rimane di riserva a Taranto ed un'ulteriore Legione è di stanza più a nord, a Capua, pronta ad intervenire in caso di necessità. Infine in Sicilia, a fare da cuscinetto tra Annibale e la madrepatria, stazionavano altre 2 Legioni - composte dai veterani sconfitti a Canne e alle due battaglie di Erdonea - anch'esse riversabili oltre lo stretto in poco tempo.

Dunque ben 4 Legioni più 5 in immediato rincalzo ed un uguale contingente di alleati, per una cifra che non doveva essere molto inferiore agli 80.000 uomini, si erge ormai come un vero e proprio muro umano tra Annibale e Roma, senza però riuscire ad espellerlo dalla Penisola. Un numero incredibilmente soverchiante rispetto all'entità delle truppe disponibili al comandante cartaginese. Ma Annibale aveva saputo affrontare, vincere e distruggere a Canne un uguale numero di romani e i tentativi di assumere l'iniziativa sono timidi e incerti: non possono sortire e non sortiranno grandi effetti.

Annibale, vinto strategicamente, continua a costituire un vero rebus sotto il profilo tattico: la sua abilità ed il suo genio sono troppo grandi e se è vero che gli è stata inflitta qualche sconfitta di lieve entità, nessuno vuole verificare di persona se nel momento decisivo saprà ritrovare il proprio genio.

Una puntata nel cuore del Bruzio rischiò il disastro in un'imboscata tesa da truppe bruzie e numide e consigliò ancora maggiore prudenza. Qualche successo minore fece in pratica aumentare l'insoddisfazione generale per la situazione. Non si trovava tra i romani chi avesse il coraggio di affrontare Annibale, per paura di consegnargli quella vittoria tattica che poteva rendere meno dura la sua sconfitta strategica.

Un insostenibile stallo strategico


L’indecisione romana prolungava indefinitivamente la permanenza di Annibale sul suolo italiano: una cosa in sé e per sé trascurabile, per la marginalità strategica ed economica del possesso cartaginese, ma politicamente insopportabile.

Contando altre 4 Legioni schierate tra l'Etruria e la Padania e una Legione che dava un gran filo da torcere niente meno che all'erede di Alessandro in Grecia, Filippo di Macedonia, Roma si trova ad avere impegnate un totale di 18 Legioni con il consueto analogo contributo di alleati: circa 150.000 uomini. Certo, per due volte nel corso della guerra Roma ne aveva avute schierate in campo ben 25, per una erano state 23 e il 206 era il primo dopo 9 anni anni consecutivi che Roma aveva un organico complessivo inferiore alle 20 Legioni: era un passo avanti, ma rimaneva comunque uno sforzo eccezionale che non poteva durare all'infinito senza provocare gravi conseguenze per il futuro di Roma. Era dunque necessario trovare una soluzione che ponesse termine alla guerra. Ma non era una decisione facile da prendere, perché le leggi che guidavano la complessa vita politica della Repubblica giocavano un ruolo della massima importanza: la decisione sarebbe stata frutto di un delicato equilibrio di interessi e non solo di mere considerazioni strategiche.

Nel frattempo la situazione a Cartagine era tutto sommato tranquilla. La guerra era lontana e le risorse per ravvivarne il fuoco non mancavano.
Sufficientemente rassicurante era anche il quadro delle alleanze sul continente africano. Il re dei numidi masesili, Siface, aveva intrattenuto rapporti di amicizia con Scipione – fino a farsi addestrare l'esercito da un centurione – costringendo Cartagine a tenere impegnati in Africa uomini che sarebbero stati più utili in Europa. Ma col tempo i rapporti erano migliorati notevolmente ed ora sembrava essere diventato un alleato affidabile. Preoccupazioni poneva, invece, Massinissa, principe dei numidi massili, e un tempo abile cavaliere sotto le insegne cartaginesi. Tra il 206 e il 205 si era scontrato con Siface e con i suoi alleati cartaginesi, contestandogli il predominio sulla Numidia, ma ora vagava fuggiasco per le montagne con un pugno di seguaci.

Uomo indubbiamente pericoloso, Massinissa, che nel 206 si era persino incontrato con Scipione – il quale per altro era anche amico di Siface – offrendogli la propria amicizia e i propri servizi: un gesto forse prematuro, ma poco rassicurante. Per i cartaginesi il piccolo stato cuscinetto dei numidi massili posto tra loro e i masesili era un'ottima merce di scambio per assicurarsi l'amicizia di Siface.

Il Senato decide

Il Senato di Roma affrontò una delle sedute più importanti della propria storia. I senatori sapevano essere numericamente superiori a Cartagine, di avere il predominio sui mari, di potersi permettere una meditata decisione strategica, perché se la presenza cartaginese in Italia non poteva protrarsi all'infinito, era altrettanto vero che Roma non era in condizioni di emergenza.
Roma aveva la prospettiva di sconfiggere l'unica potenza che rivaleggiasse con lei per il dominio del Mondo: una prospettiva, però, densa di incognite e gravida di responsabilità.

Il dibattito fu infuocato e polemico, fitto di schermaglie velenose tra i suoi due principali interpreti: Publio Scipione e Fabio Massimo il "Temporeggiatore". Quest'ultimo, sorretto da una larga parte del Senato, sosteneva che avventurarsi in imprese dall'avvenire incerto era un rischio inutile perché la minaccia di Annibale, oggi sopita, poteva tornare a farsi sentire. Publio Scipione invece riteneva si presentasse per Roma un'occasione storica. Secondo lui Annibale non rappresentava più una minaccia, e proprio per questo un suo semplice ritorno in patria avrebbe significato solo la fine momentanea del conflitto, ma non la vittoria romana, né tanto meno la sconfitta cartaginese. Il pericolo sarebbe rimasto a pesare sul destino della Repubblica, così com'era avvenuto dopo la fine della Prima Guerra Punica.

Ben altro destino attendeva Roma se si fosse intrapresa l'invasione dell'Africa: sconfiggendo Annibale sul suolo patrio, la pace che si sarebbe dettata avrebbe sancito per sempre il predominio di Roma nel Mediterraneo. In effetti il piano di Scipione era un azzardo: sconfiggere Annibale era stato impossibile in Italia, figuriamoci in patria, dove avrebbe goduto di ben altro sostegno. Ma Scipione aveva guidato le Legioni romane a conquistare territori più vasti dell'Italia, battendo nemici superiori per numero e per fama ed era intimamente convinto di poter riuscire nell'impresa.
Sostenuto dal popolo, Scipione riuscì con grande abilità a convincere i tiepidi senatori, facendosi assegnare come provincia consolare la Sicilia, con l'autorizzazione ad invadere l'Africa ove ne avesse riscontrato la necessità.

Era un compromesso precario, soggetto ai mutevoli umori del senato. Soddisfaceva Scipione solo in parte: gli furono assegnate solo le due Legioni di Sicilia, composte dagli sconfitti di Canne e di Herdonea (uomini che roma voleva dimenticare e aveva dimenticato) e non gli fu concesso di reclutare nuove Legioni, ma al massimo di arruolare volontari.
Per la flotta necessaria all'invasione dell'Africa, Scipione dovette accontentarsi delle poche navi di stanza in Sicilia, ma gli fu concesso di rivolgersi agli alleati etruschi per ottenerne altre. Questi dimostrarono grande fiducia nel giovane generale romano, e attrezzarono una flotta col legno, ancora verde, che poterono reperire: veramente misera cosa per una tale impresa.
In definitiva il Senato consegnava a Scipione solo scarti sacrificabili senza rimpianti.

La reazione di Cartagine

Di fronte all'imprevista strategia di Scipione, Cartagine si trovò impreparata e indifesa, ma non senza frecce al suo arco. Magone si trovava nelle Baleari con 12.000 fanti e 2.000 cavalieri, pronto all'imbarco, Annibale non faceva che chiedere rinforzi per cercare di portare nuovamente l'assalto a Roma: forse, quindi, si poteva obbligare Scipione a rinviare la spedizione temporaneamente (o magari per sempre) rinnovando l'attacco in Italia.
Le risorse finanziarie per reperire mercenari furono rese immediatamente disponibili, ciò che scarseggiava era la flotta, dove la superiorità romana era netta e rendeva pericolosa la navigazione dei convogli. Non che il pericolo di essere intercettati fosse enorme: ma se un convoglio con scarsa o nulla protezione fosse stato intercettato dai romani, il suo destino era segnato.

I cartaginesi dovettero rischiare e la fortuna non arrise loro. Protessero Cartagine con una parte della flotta e con la rimanente supportarono l'iniziativa di Magone: così non rimasero navi per scortare i rinforzi destinati ad Annibale. Il destino si accanì proprio contro questi ultimi. Una tempesta li dirottò verso la Sardegna, dove furono preda della flotta romana.
Magone, comunque, raggiunse incontrastato Genova e ne fece una base d'appoggio per il reclutamento degli uomini che erano necessari alla sua spedizione.

La calma di Scipione e la fretta del Senato

Nella primavera del 205 Scipione arrivò in Sicilia con 7.000 volontari e le navi ancora odorose di resina costruite dagli etruschi, concentrandosi subito nei preparativi della spedizione.
Prese contatto con le sue truppe. Riscontrò quello che probabilmente aveva già immaginato: si trattava di uomini che erano stati sconfitti non per scarso valore, ma per l'inettitudine dei propri comandanti, ed erano ansiosi di dimostrarlo ad una patria che li aveva esiliati. Una parte di loro, però, era inutilizzabile: li congedò, sostituendoli con i volontari, per poter iniziare prima possibile l'addestramento.

Con uno stratagemma fece sostenere a 300 giovani nobili siciliani, poco entusiasti di andare in guerra, le spese per l'addestramento, la montatura e l'armamento di altrettanti sostituti come cavalieri, dimostrando così di aver ben capito l'importanza cruciale di quest'arma.
Cercò poi con grande sagacia di conquistarsi la fiducia dei siciliani: aveva bisogno di una solida e sicura base strategica per alimentare lo sforzo di una guerra oltremare. Una base logistica in grado di fornire ai suoi uomini soprattutto la tranquillità che deriva dal sapere di non dover necessariamente lottare per rifornirsi di cibo. La sua opera diplomatica ebbe successo, e i siciliani fecero di buon grado grandi sacrifici per sostenere Scipione: lo sentirono vicino alla propria cultura ellenistica e al proprio modo di vivere come mai nessun romano era stato prima.
Ciò che era virtù a Siracusa non lo era a Roma: gli avversari politici di Scipione colsero l'occasione per denunciare questa sua "grecizzazione", giungendo persino a criticare il modo in cui vestiva.
Magone con un colpo di mano aveva occupato Genova e ora procedeva ad un intenso reclutamento tra i galli e i liguri: non rappresentava ancora una grande minaccia, ma per i nemici di Scipione era comunque un buon pretesto per intralciare i suoi progetti di invasione.
Lo accusarono di inerzia e di mollezza, di aver imposto a Roma, per giovanile arroganza, un’impresa impossibile.

Le prime mosse di Scipione

Scipione non si fece mettere fretta. Riponeva troppa importanza nell'addestramento delle truppe per abbandonare la Sicilia prematuramente. Non sarebbe partito per l'Africa prima di essere sicuro che i suoi uomini avessero assimilato alla perfezione i nuovi schemi tattici che egli stesso aveva ideato, e che costituiranno la base di tante sue vittorie. Provvide anche ad inviare una spedizione esplorativa in territorio nemico guidata dal suo luogotenente Lelio: il suo arrivo sulle coste africane provocò il panico a Cartagine, dove si credette che fosse già lo sbarco di Scipione. con un'immediata corsa al riarmo: si iniziò il reclutamento anche tra gli stessi cittadini punici, gli arsenali intensificarono la produzione di armi, si fece incetta di grano.

Tra i compiti di Lelio c'era anche quello di prendere contatto con Massinissa. L'incontro avvenne nel porto cartaginese più prossimo alla Numidia, Hippo Regius, dove questi, fuggiasco e braccato dai propri nemici, espresse senza mezzi termini la propria contrarietà per la lentezza dei preparativi.

Nel frattempo Scipione non rimase ad attendere inattivo notizie da Lelio. Gli si presentò l'occasione per mettere alla prova il grado di preparazione delle proprie truppe e ne approfittò, portando parte del suo esercito alla conquista di Locri, in Calabria, una roccaforte di Annibale.

L'impresa riuscì, ma si rivelò un’arma a doppio taglio, che rischiò di compromettere il piano di Scipione. Pleminio, Propretore incaricato da Scipione del comando a Locri, era un tale mascalzone che fece rimpiangere ai locresi il dominio cartaginese. Una storia torbida e intricata fatta di ruberie, di morti ammazzati, di scontri tra gli stessi romani: una storia di cui non potevano non approfittare ancora una volta gli avversari di Scipione per tentare di esautorarlo dal comando.

Pleminio fu arrestato e Scipione dovette subire un'inchiesta: non era inquisito per aver abbandonato la sua provincia o per aver scarsamente controllato un uomo che, per altro, non era suo subordinato, ma soprattutto per il suo progetto: i senatori inviati in Sicilia, però, furono conquistati dall'efficienza e dall'addestramento raggiunto dalle truppe di Scipione e ne divennero ardenti sostenitori: la partenza per l'Africa era ormai imminente.

2) Scipione in Africa >