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SCIPIONE INIZIA LA SUA IMPRESA

2) Scipione in Africa

Nicola Zotti

Una partenza ritardata

Scipione salpò per l'Africa nell'estate del 204: in ritardo rispetto a quanto aveva progettato. Gli avvenimenti di Locri avevano fatto rimandare la partenza che sarebbe potuta avvenire già nell'autunno del 205. Aveva ai suoi ordini circa 25.000 uomini di cui un decimo circa di cavalleria, un convoglio di 400 mercantili scortato da 40 navi da guerra – un numero veramente molto esiguo, ma all'occorrenza integrabile dalla flotta di Sardegna – che sommavano al computo totale altri 12.000 marinai.

Le legioni al suo comando erano la V e la VI, come detto i reduci della sconfitta di Canne, ai quali si erano aggiunti gli sconfitti delle due battaglie di Herdonea, e una massa di 7.000 uomini disperati al punto da scegliere volontariamente la vita militare: in apparenza elementi destinati al sacrificio in un'impresa che a Roma era giudicata senza speranza.

Come sia riuscito Scipione a farne un esercito in grado di stupire un'ostile commissione senatoriale, non lo sappiamo: certo è che un gruppo di veterani esiliati da una dozzina d'anni, periodo durante il quale non si tennero certo in forma né potevano essere ringiovaniti, e i loro commilitoni volontari, si erano trasformati in un'efficientissima macchina bellica: la più efficiente che Roma avesse mai posseduto. E ora faceva rotta verso l'Africa per dare a Roma quella vittoria della quale solo Scipione era certo.
Il ritardo aveva complicato le cose: un matrimonio tra Siface e la bellissima figlia di Asdrubale, Sofonisba, aveva cementato l'alleanza tra i numidi e Cartagine: Siface aveva addirittura fatto sapere a Scipione che se avesse invaso l'Africa lo avrebbe trattato come nemico.

L’invasione ha inizio


La spedizione romana approdò nei pressi di Utica, un'importate città cartaginese arroccata su un promontorio. Scipione provò a prenderla di sorpresa, ma non ci riuscì per la pronta reazione degli abitanti, e quindi le pose assedio, bloccandola da parte di terra con il proprio campo.
Massinissa raggiunse Scipione con il misero seguito che gli consentiva la sua condizione di esule sconfitto, appena 200 cavalieri, mettendosi a sua disposizione. Un breve raid nell'entroterra portò un ricco bottino e la reazione cartaginese non si fece attendere: ma se il buon giorno si vede dal mattino, doveva essere proprio una brutta giornata per i cartaginesi: un loro contingente di 4.000 cavalieri che si era spinto avanti sconsideratamente in una spedizione esplorativa, venne sorpreso con una manovra a tenaglia ed annientato: e così Scipione poté continuare indisturbato ad assediare Utica.
Tra il campo di Scipione e la Sicilia c'era un intenso andirivieni di imbarcazioni: andavano cariche di bottino e ritornavano piene di rifornimenti.

I cartaginesi dovevano subito adottare dei provvedimenti. Avevano messo assieme un poderoso esercito, del quale 30.000 fanti e 3.000 cavalieri erano disponibili immediatamente, acquartierati vicino Cartagine: se non potevano certo rivaleggiare con i legionari di Scipione per combattività, disciplina ed esperienza, li superavano almeno per numero, ed era già qualcosa. Magone in Italia non aveva avuto un gran successo nel reclutamento di mercenari e non riusciva ad impegnare i romani più di tanto, mentre Annibale era sempre bloccato nel Bruzio: nessuno minacciava il suo esercito e lui non cercava occasioni per metterlo a repentaglio. Nel complesso le cose non andavano in modo particolarmente buono, ma neppure la situazione era compromessa. Inoltre Siface sembrava intenzionato a tener fede agli impegni presi con Cartagine e stava risalendo il corso del fiume Bagradas con un'armata forte di ben 60.000 uomini, di cui 10.000 cavalieri. Anche Siface, però, doveva prendere una delicata decisione.

Di fronte all'invasore i cartaginesi e Siface avevano fatto fronte comune: Scipione difficilmente avrebbe potuto affrontarli quando avessero congiunto i rispettivi eserciti, se non altro per la loro forza numerica. Secondo i resoconti storici, le due armate complessivamente ammontavano ad 80.000 fanti e a 13.000 cavalieri: si tratta probabilmente di un numero esagerato, ma anche se fossero stati solo la metà, erano pur sempre il doppio dei romani.

Scipione proseguì ad assediare Utica, ignaro dei movimenti contro di lui. Certamente ipotizzava che Cartagine non avesse da mettere in campo solo 4000 sprovveduti cavalieri, e che Siface, se teneva fede alla minaccia che aveva pronunciato prima della partenza della spedizione, in questo momento stava avvicinandosi alla testa dei suoi uomini.

Assumere informazioni sulla consistenza del nemico non era possibile: durante i raid nell'entroterra delle precedenti settimane aveva effettuato una profonda esplorazione del territorio nemico, scoprendolo sgombro e privo di difese. Evidentemente il nemico stava radunandosi ben oltre le sue capacità di ricognizione immediata. E dato che non aveva la benché minima idea di quale linea di avvicinamento stessero seguendo i suoi nemici, per individuarli avrebbe dovuto disperdere a ventaglio le proprie unità sottoponendole ad un grave rischio. Si risolse, dunque, a fare solo esplorazioni a raggio ridotto, continuando ad assediare Utica per assicurarsi quella città come base operativa.

Ci vollero 40 giorni prima che gli giungessero notizie sui nemici. L'entità delle loro forze era ancora indeterminata, ma almeno ne conosceva la posizione: Le truppe cartaginesi al comando di Asdrubale si erano concentrate presso Cartagine, mentre Siface era più distante, nella fertile vallata dei Campi Magni, ad una settimana circa di distanza.

L'assedio di Utica procedeva poco felicemente, la città non dava segni di cedimento; il nemico stava per chiuderlo contro il mare; per di più la bella stagione stava per finire – siamo nell'autunno inoltrato del 204 – e non si può dire che Scipione avesse accumulato successi su successi: da Roma qualcuno avrebbe potuto rimproverargli un'eccessiva lentezza: tanto più che era il momento di rinnovargli il comando della missione africana e, per quanto fosse improbabile che questo gli venisse sottratto, la riconferma non era neppure scontata, come pure poteva avvenire che gli venisse associato al comando qualche scomodo avversario politico.

Scipione nei quartieri invernali

Scipione levò l'assedio a Utica, trincerandosi a due chilometri di distanza, in una penisola a cavallo di un costone roccioso. Qui poteva contare su un buon approdo che gli garantiva le comunicazioni con la Sicilia e su una palizzata che rendeva impossibile ai nemici venirlo a disturbare durante i mesi invernali. Un po' poco, soprattutto se confrontato con l'attivismo che aveva contrassegnato l'invasione in Italia di Annibale – e a Roma qualcuno lo avrebbe senza dubbio notato – ma per il momento il comandante romano riteneva che non si potesse fare molto più di questo.

Le due armate nemiche alla fine comparvero sulla scena, ponendo i campi a una dozzina di chilometri a sud del campo di Scipione, da dove potevano controllare contemporaneamente la valle del fiume Bagradas e la via verso Cartagine. Non si azzardarono, però, ad avvicinarsi oltre.

I contendenti sembravano temersi reciprocamente, ma era evidente che la posizione romana era peggiore di quella cartaginese. Forse lo stesso Scipione ne era convinto ed iniziò a parlamentare con Siface, sperando fosse stanco di Sofonisba: anche gli storici antichi più seri danno credito all'influenza che "la fanciulla", come la chiama Polibio, aveva su Siface e, in effetti, in seguito avremo ulteriori conferme del sorprendente fascino della figlia di Asdrubale. Tentò invano di convincere il re numida ad abbandonare Cartagine per rinnovare il patto di amicizia con Roma, ma questi non subì il fascino di Scipione come subiva, invece, quello di Sofonisba, ed anzi informò il suocero dell'iniziativa romana, facendosi interprete, immaginiamo con quanta soddisfazione, del ruolo di mediatore tra le due superpotenze in lotta. Offrì a Scipione un accordo che in pratica riportava la situazione al periodo precedente la guerra, riconoscendo a Roma le conquiste effettuate, ma obbligando ciascuno a ritornare nei propri confini originari. L'inverno per Scipione stava iniziando decisamente male.

Scipione prepara la sua mossa

Non sappiamo quando Scipione ideò il suo piano: un progetto che Alessandro a Gaugamela si era rifiutato di adottare – e Alessandro non era uomo che non sapesse assumere dei rischi – e che aveva portato alla rovina Pirro a Benevento – e non si può dire che Pirro non sapesse pianificare e organizzare le operazioni militari.

Scipione accolse favorevolmente la proposta di mediazione offerta da Siface, e condusse per tutto l'inverno laboriosissime trattative di pace.
Egli non intendeva certamente concludere in questo modo la sua impresa in terra d'Africa, ma aveva bisogno di tempo e di preparazione per mettere a punto quello che Polibio definisce "l'opera sua più grande e meravigliosa", forse dando prova di un certo cinismo, più che di piaggeria.

Le prime delegazioni romane incaricate dei colloqui di pace avevano notato la scarsa cura con cui erano disposti i campi nemici. Qualche tribuno militare abituato dall'ordine geometrico che regnava nel castrum romano doveva essere rimasto scandalizzato per il disordinato intrico di capanne di legno e foglie senza terriccio di cui era costruito il campo cartaginese, e del vero e proprio caos che regnava tra le capanne di canne e foglie dei numidi, che per di più sorgevano per la maggior parte oltre il fosso di recinzione del campo stesso.

Questo dettaglio suscitò il massimo interesse in Scipione, il quale iniziò a dare maggiore importanza ai colloqui di pace, inviando da Asdrubale e da Siface delegazioni sempre più frequenti e affollate di diplomatici, ciascuno con un nutrito seguito si servitori. Tanto frequenti da diventare abituali per i numidi ed i cartaginesi che iniziarono ad allentare le misure di sorveglianza.

Ma quando queste delegazioni rientravano al campo romano, Scipione era più ansioso di ascoltare i rapporti dei "servi" che non dei diplomatici: infatti i primi altri non erano che i più esperti ed astuti tra i militari romani, che presto impararono a conoscere gli accampamenti nemici come il proprio.
Il via vai di diplomatici e di "schiavi" tra numidi e cartaginesi durò per tutto l'inverno.

La trappola

Alle prime avvisaglie della primavera, Scipione era pronto a far scattare una trappola che avrebbe rappresentato la fine per le poderose armate che aveva di fronte.

Iniziò intraprendendo alcune mosse che segnalavano l'intenzione di riprendere l'assedio di Utica. Il colle davanti alla città ove originariamente era stato messo il primo campo fu nuovamente occupato e le macchine d'assedio furono installate sui ponti delle navi militari per attaccare Utica anche dal mare. Contemporaneamente chiese a Siface se i cartaginesi fossero disposti a ratificare gli accordi cui si era addivenuti durante le discussioni invernali.

Il re numida, che credeva ormai giunta l'ora della pace, non faticò a farsi assicurare l'assenso dai cartaginesi. Ma quando tornò a comunicarlo a Scipione le sue speranze furono bruscamente vanificate: il comandante romano gli mandò a dire che lui avrebbe volentieri approvato i patti concordati, ma i suoi consiglieri la pensavano altrimenti, per cui la tregua era da considerarsi conclusa.

Le ostilità dunque ricominciavano bruscamente al punto in cui si erano interrotte in autunno: ma solo apparentemente.
Scipione, allontanata da sé – non troppo, per la verità – ogni accusa di slealtà con la rottura delle trattative, a mezzanotte di quello stesso giorno fece uscire in gran segreto le truppe dal campo divise in due gruppi: il primo, guidato da Lelio e Massinissa avrebbe circondato il campo di Siface, mentre il secondo, comandato da lui stesso, si sarebbe occupato del campo di Asdrubale.

Quando il dislocamento delle truppe fu completato, alcuni soldati romani, eludendo abilmente la sorveglianza (probabilmente molto rilassata) delle sentinelle nemiche, incendiarono le capanne esterne del campo numida. In breve il fuoco si propagò da capanna a capanna, gettando nel caos i numidi: nudi ed ancora semiaddormentati cercarono scampo dalle fiamme fuggendo verso l'esterno del campo, dove però li attendevano i romani. Così, quelli che riuscirono a scampare alle fiamme morirono per mano romana.

Nel frattempo, i cartaginesi si erano accorti delle fiamme che si levavano dal campo numida e, credendo in un incidente, si precipitarono in massa a portare soccorso agli alleati, cadendo, così sulle spade dei legionari appostati con cura da Scipione.

Stando alle cifre riportate dagli storici, dovrebbe trattarsi del più grande macello dopo Canne: 40.000 morti e 5.000 prigionieri, con pochi scampati, tra cui Siface e Asdrubale, mentre da parte romana le perdite dovevano essere dell'ordine delle unità, al massimo delle decine.

Nemmeno Annibale era mai riuscito in un'impresa del genere.

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