torna alla homepagetorna alla homepage
storia militare e cultura strategica
torna alla homepage
 
dalle discussioni
dell'area Warfare di MClink,
a cura di Nicola Zotti
 
home > vocabolario > Cittadino-soldato


ricognizioni
in territorio ostile


recce team

storie
strategia
tattica
what if?
vocabolario
documenti
segnalazioni
link
scrivici

quelle piccole sciabole incrociate

quelle piccole spade incrociate

Viaggi nei
campi di battaglia d'Italia
sulle carte del Tci


«Ricordadate, soldati, che innanzitutto siete cittadini.
Non diventiamo per il nostro Paese una sciagura peggiore che il nemico stesso».
Generale Lazare Carnot, 1792
Discorso all'Armata del Nord.


SOLDATI O GUERRIERI?

Cittadino-soldato

nicola zotti

Tra le parole molto poco popolari in Italia vi è "cittadino", ormai desueto e sostituito definitivamente da "gente", come un tempo era spesso scambiato con "popolo" o "masse".

In entrambi i casi impropriamente contribuiva a dissolvere nelle nebbie dell'oblìo la cittadinanza, espropriandoci dei diritti e sollevandoci implicitamente dai doveri connessi ad essa. Opinione personale: nella situazione odierna nulla di preventivato ed organizzato, che teste capaci di tanto si sono perse da decenni, ma solo frutto di ignoranza e scarsa cultura democratica.

Lo status di cittadino è una tra le molte eredità della Rivoluzione francese e, in modo diverso e meno influente, della Rivoluzione americana.

Tra le possibili forme (tutte transitorie) dello status di cittadino (che le unisce e collega tutte) si contempla quella di soldato, tanto di leva e che di professione: un'eventualità che scardinò radicalmente e "rivoluzionò" la società, la guerra e il modo in cui la si combatteva: intuizione alla base del "Vom Kriege" di von Clausewitz ed evento fondante della nostra modernità.

Penso questo il 26 ottobre 2008, giorno della morte di Delfino Borroni, ultimo partecipante italiano alla Grande Guerra a lasciare questo mondo, un pensiero che arriva al margine di un'altra serie di riflessioni sulla condizione di militare (e di cittadino) nel nostro Occidente globalizzato -- in Italia non so -- che cercherò di esporvi in queste poche righe.

Negli ultimi anni, infatti, è invalso, in sedi ufficiali e non, l'uso del termine "guerrieri" invece del più tradizionale "soldati", e spesso anche quando si continua ad utilizzare "soldati", il significato semantico che gli viene conferito appare evidentemente essere quello di "guerrieri": quasi i due termini fossero sinonimi.

La confusione è stata innescata a vari livelli: media, analisti militari, politici e gli stessi militari hanno tutti contribuito in egual misura e ciascuno nel proprio ruolo.

L'opinione pubblica fa coincidere allegramente il concetto di "professionista" militare con un superomistico "Rambo" ipertecnologicizzato, pervaso al limite del sovrannaturale di "spirito combattente". L'equazione è che la guerra attuale richieda uno specialista fornito di ogni possibile gadget tecnologico, di un addestramento esasperato, di qualità fisiche eccezionali e di attitudini "eroiche".

Tra gli analisti militari, quello che più efficacemente ha espresso la necessità, ma meglio, l'ineluttabilità, di una Forza Armata composta di guerrieri rappresentanti ed interpreti di una cultura guerriera, è stato John Keegan nel suo libro "La grande storia della guerra": un atto d'accusa contro von Clausewitz e la "guerra politica", in parte ritrattato in opere successive ma tuttavia di grande eco pubblica.

Per superficialità ed ignoranza, credo, i politici sono andati a ruota, probabilmente convinti che definire gli appartenenti delle FFAA "guerrieri" fosse più moderno e più efficace in termini di conquista del consenso. In Italia si ha qualche ritegno per l'inequivocabile scorrettezza politica del termine, ma si usa incondizionatamente la parola "eroe", facendo implicitamente riferimento alla stessa categoria.

Particolare è il caso dei militari e, non me ne vogliano gli altri, ma vorrei portare qualche esempio "all american" che ritengo particolarmente significativo.

Nel 2003 il "credo del soldato" americano è stato modificato dai due ultimi ex-capi di stato maggiore dell'Esercito statunitense, Eric Ken Shinseki e Peter Jan Schoomaker. Dalla versione che esordiva dichiarando "Io sono un soldato americano [...] legato a difendere la costituzione degli Stati Uniti", a quella che aggiungeva alla prima frase l'affermazione "Io sono un guerriero e il membro di un gruppo", cancellando al contrario la seconda, quella relativa alla difesa della costituzione.

Shinseki in particolare, primo asiatico-americano a ricevere le 4 stelle, è noto non solo per aver previsto che la normalizzazione dell'Iraq avrebbe richiesto centinaia di migliaia di uomini, ragione per la quale perse la fiducia del segretario alla difesa Donald Rumsfeld, ma anche per essere l'ispiratore di Future Force e, nella fattispecie della presente analisi, della campagna "Warrior Ethos", con la quale si enfatizzava -- non sono in grado di dire con quanta convinzione e con quali scopi, probabilmente in modo non sufficientemente meditato -- la riscoperta dell'etica guerriera.

Ha aderito entusiasticamente a questa corrente di pensiero, tra gli altri, il Walter Reed Army Medical Center, la più importante istituzione sanitaria militare americana, che definisce se stessa nella tagline del proprio sito "Home of Warrior Care": la casa dove ci si prende cura dei guerrieri, e ripete questo concetto in ogni occasione possibile: i militari feriti ospedalizzati, ad esempio, sono chiamati "Warriors in transition".

E troviamo anche -- e qui qualche perplessità è d'obbligo -- chi dovrebbe essere il principale sostenitore di una più tradizionale cultura del cittadino-soldato, ovvero il Lt. Gen. Jack C. Stultz, comandante della Riserva dell'Esercito americano, che ha al contrario manifestato pubblicamente l'esigenza di passare dall'idea di "cittadino-soldato" a quella di "guerriero-cittadino", con un completo ribaltamento di prospettiva.

Non credo questo significhi una maggiore militarizzazione della società americana, che ha forti anticorpi contro questa evenienza, tuttavia non è un trend che può essere trascurato, non fosse altro per la leggerezza con la quale si aderisce ad una formula di cui non si è in grado di comprendere fino in fondo le possibili conseguenze.

Infatti le parole chiamano prima o poi inevitabilmente i contenuti, ed è bene allora ritornare a dove abbiamo iniziato, ovvero al perché la Rivoluzione francese dovette inventare i "soldati".

La nobiltà francese -- come per altro tutta la nobiltà europea -- traeva legittimità come classe dirigente dalle proprie trascorse tradizioni guerresche, da quel diritto del più forte risalente alla supremazia di chi quella terra aveva conquistato con la forza: "usurpatori" per i rivoluzionari francesi, che per contrasto si ispiravano alle tradizioni romano-galliche da cui non solo attingevano a piene mani i simboli, ma delle quali si definivano anche etnicamente e biologicamente gli eredi.

I nobili francesi conservavano l'essenziale di quelle tradizioni guerresche, ovvero il monopolio dei ruoli ufficiali e di comando, ai quali si poté accedere esclusivamente per "ius sanguinis" (4 generazioni almeni di sangue nobile nelle vene) fino allo scoppio della Rivoluzione stessa, con sporadici tentativi di apertura al merito che solo con la Francia repubblicana diventarono regola.

Se la Rivoluzione voleva difendersi dai suoi nemici doveva costruire un "ethos" diverso da quello guerriero: militare, ma non militarista, bellicoso, ma non guerresco.

In effetti, la differenza fondamentale tra un soldato e un "guerriero" è semplice. Un soldato fa il suo lavoro come parte di un complesso sistema umano, lo fa con le caratteristiche fondamentali della disciplina, del senso del dovere e del disinteresse. Anche il coraggio conta, ovviamente, ma è solo uno tra i molti valori necessari, e in secondo piano.

Il soldato è il prodotto di una società occidentale che, pur essendo intrinsecamente individualistica nei valori, sottolinea la subordinazione dei singoli intressi personali al perseguimento di un obiettivo collettivo definito come il bene comune. Un guerriero, al contrario, è il prodotto di una cultura o subcultura, che è essenzialmente trainata dall'onore: e se la condizione di militare per il soldato, come accennato all'inizio, è intrinsecamente transitoria -- mentre permanente e prevalente è l'essere cittadino -- chi è "guerriero" lo è per sua natura, per sempre e prima di ogni altra cosa. Una serie di distinzioni gravide di conseguenze quanto meno controverse.

Nella cultura dell'onore i comportamenti individuali sono guidati quasi esclusivamente dalla necessità di guadagnare e quindi proteggere, il proprio onore personale. L'onore non è necessariamente vissuto come il prodotto di una vita onesta e dignitosa, ma come una merce. L'onore è un bene materiale che può e deve essere accumulato dal guerriero con un unico mezzo: l'azione. E siccome è un bene materiale può anche essere sottratto da altri o deperire per propria incuria. In entrambi i casi ciò avverrà per responsabilità individuale, e il guerriero è tenuto a raccogliere l'onore come meglio può, e deve difendere sia il proprio che l'onore della sua famiglia e del suo clan.

Così, nella cultura dell'onore se tua moglie, figlia o sorella hanno "recato disonore" alla famiglia, sarà come se il "capitale di onore" di essa nel suo complesso sia stato decurtato e deprezzato. In molte culture dell'onore è compito dei maschi della famiglia difendere questo capitale d'onore, reintegrandolo di norma con un'azione violenta contro chi lo ha proditoriamente dissipato o minacciato nella sua interezza.

Allo stesso modo, se siete un maschio in una cultura dell'onore guerriero, e un individuo è il mezzo per guadagnare onore, dovete cercare di ucciderlo "per questione personale". Ciò significa anche che, in un contesto militare, il guerriero combatte per se stesso e per il proprio onore e non per la propria comunità, e che la disciplina, l'organizzazione e il coordinamento, e la cooperazione hanno un valore sociale molto minore rispetto alla dote personale del coraggio dimostrato in situazioni di pericolo.

Il guerriero non guadagna onore facendo la rigorosa manutenzione di un automezzo e neppure ottenendo un buon rendimento come unità o vigilando nel fango di una trincea, non importa se da coscritto o professionista. Solo i singoli atti e gesta "eroiche" possono portare onore, e devono oltretutto avvenire pubblicamente, perché è questo ciò che motiva il guerriero ed è questo che ne definisce la natura e lo status.

Diritti e prerogative del soldato, diventano privilegi di casta per il guerriero, che non condivide con la società che difende nessun legame particolare, nessun interesse comune, ma al contrario fa "razza" proprio con il suo nemico: come il cane da pastore, che ha più affinità col lupo piuttosto che col gregge affidatogli.

E prima che si concretizzi una società divisa in caste, ancor più profondamente e drammaticamente di quanto non sia già oggi, credo sia prezioso "onorare" collettivamente, unanimemente e sinceramente uomini come Delfino Borroni.