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METAURO, FANO (PS), CENTRO tav. 7 F6

Il Metauro 207 a. C.

nicola zotti

Tra gli innumerevoli episodi della Seconda Guerra Punica, una battaglia non è stata celebrata quanto avrebbe meritato: la battaglia sul fiume Metauro. Essa ha rappresentato un vero punto di svolta nei destini della campagna di Annibale, una data dopo la quale le speranze cartaginesi di riaccendere il conflitto sul suolo italiano sono definitivamente tramontate.

Se c'è una battaglia che ha cambiato il corso della storia, questa è la battaglia del Metauro.



La situazione strategica

Nel 207 a.C., Annibale Barca aveva trascorso più parte della sua vita in Italia che sul suolo della madrepatria.

Con la vittoria di Canne nel 216, Annibale aveva acquisito il controllo di tutto il meridione della penisola, ma da allora era stato costretto a ridurre la propria influenza al Bruzzio, alla Lucania e a parte dell'Apulia, facendo perno sulle città di Venusia e Metapontum.

Questa contrazione della propria sfera di influenza era motivata da due ottime ragioni.

In primo luogo, i territori che avevano rappresentato un sicuro e comodo rifugio -- sin troppo comodo nel caso di Capua -- erano oramai esausti, perché da tempo sostenevano con i loro prodotti le armate contrapposte, e ciò che consigliava di abbandonarli alla ricerca di regioni meno sfruttate.

D'altra parte, però, era anche vero che i romani si erano fatti molto più insidiosi: pressavano Annibale con continue azioni offensive, i cui risultati potevano pure essere tutt'altro che entusiasmanti, ma comunque logoravano le forze di Annibale più significativamente di quanto non punissero quelle romane.

In tal modo il comandante cartaginese era stato costretto decisamente sulla difensiva. Aveva disperso la parte meno preziosa delle proprie truppe in guarnigioni, in modo da costruire un ostacolo tra il cuore del proprio esercito e le armate romane, allontanando così il pericolo delle continue battaglie.

Annibale tentava di guadagnare tempo: lo aveva già fatto in passato, ma oggi tale politica sembrava destinata ad una sorte migliore.

Le riserve umane e morali della nazione romana potevano pure essere inesauribili, ma non sarebbero state comunque sufficienti a vincere la guerra, se non fossero state sostenute dall'appoggio delle popolazioni alleate.

La strategia di Annibale era stata quella di creare una fessura tra Roma e i suoi alleati, per poi allargarla fino a farne una vera e propria spaccatura

A questo riguardo, la durata e l'asprezza della guerra avevano un duplice, contrastante effetto: un impulso centrifugo e centripeto assieme.

Certamente minavano le fondamenta della solidarietà tra il popolo romano e i suoi alleati.

Roma era costretta a rinnegare i patti sottoscritti con le città costiere, allo scopo di ottenere da esse gli uomini per reintegrare i ranghi; a simili richieste otteneva rifiuti, paragonabili al tradimento, persino da 12 tra le sue stesse colonie; altre città si esprimevano in ribellioni aperte. Ciò sgomentava i senatori e faceva loro prevedere l'inizio della fine.

Eppure nell'Urbe nessuno pensava ad una resa. In una guerra così crudele, la volontà di resistenza del popolo romano si traduceva in un monito agli alleati, che vedevano sì Annibale imperversare per l'Italia, ma anche ne verificavano l'incapacità di assestare il colpo decisivo.

Ma nel 207 a.C. il comandante cartaginese sapeva che stava per giungere il momento del colpo finale.

Dalla Spagna, seguendo la stessa strada che 11 anni prima egli aveva aperto, stava arrivando in Italia Asdrubale, suo fratello minore (38 anni contro 40): portava con sé una forza consistente, valutabile attorno ai 40.000 uomini, che poteva sbilanciare a vantaggio dei cartaginesi la situazione di stallo in cui si era arenata la guerra.

All'indomani di Canne, Annibale aveva sostenuto con la madrepatria la necessità di ottenere rinforzi: e infatti ricevette via mare, nel 215, appena 4.000 cavalieri numidi, 40 elefanti e un po' di argento: in compenso, però, vennero concessi ai generali in Spagna i fondi per il reclutamento e l'addestramento delle milizie necessarie a sostenere la pressione romana in quel territorio e a portare in un secondo momento aiuto ad Annibale.

Ci vollero sette anni prima che Asdrubale potesse lasciare la Spagna: in realtà non se ne era andato completamente di sua volontà, ma lo avevano cacciato: Publio Cornelio Scipione -- più tardi detto l'Africano -- lo aveva sconfitto, duramente, alla battaglia di Baecula. Le sue armate non erano state però inseguite e disperse perché Scipione aveva alle sue spalle altri due eserciti nemici di eguale entità da controllare, ed era stato costretto a mollare la presa.

Così Asdrubale aveva potuto attraversare i Pirenei e trascorrere l'inverno in Aquitania, dove reclutò un buon numero di entusiasti guerrieri galli. Altri se ne aggiunsero nella valle del Rodano, la stessa regione dalla quale in anni non lontani erano partiti contro i romani i temibili Gaesati. Altri ancora si unirono alla comitiva nella Gallia Cisalpina: possiamo stimare che, alla fine, i guerrieri di origine celtica dovevano costituire tra un terzo e la metà dell'intera spedizione.
La marcia di Asdrubale verso l'Italia sorprese tutti, nemici e «parenti», per la sua velocità: trovò impreparati tanto i consoli romani quanto Annibale.

In effetti egli intraprese il suo viaggio in primavera, con un tempo clemente, mentre il fratello lo aveva compiuto in autunno, sotto le prime nevicate. Annibale aveva dovuto aprirsi la strada tra popolazioni ostili che ne avevano rallentato il cammino, mentre Asdrubale, a dieci anni di distanza, gode di riflesso della fama che il fratello si è guadagnato in tante vittorie, e, come abbiamo già detto, raccoglie nuove milizie anziché perderne.

Da parte romana, la notizia dell'arrivo di Asdrubale è vissuta con costernazione: la famiglia Barca è una stirpe di grandi comandanti, uomini nati, educati e vissuti allo specifico compito di distruggere Roma. La cosa che più impressione i loro avversari è la capacità dei Barca, del tutto singolare nella storia, di vincere battaglie su battaglie guidando masse eterogenee di uomini di razze e lingue diverse, e non in nome di un destino imperiale, di una obbedienza dinastica o di una fede comune: ma di una città lontana, abitata da una popolazione di commercianti che disdegna l'uso delle armi al punto da considerarlo atto di bassa dignità sociale.

Se un comandante del livello di Annibale ha compiuto quello che ha compiuto fino ad oggi, i romani hanno paura di pensare cosa potrà succedere quando non sarà più solo, ma avrà l'aiuto di un suo pari.

E che sia pari ad Annibale, Asdrubale inizia a dimostrarlo compiendo le stesse azioni: forse gli stessi errori.



Fa appena in tempo a raccogliere tra le sue fila 8.000 liguri -- un altro osso duro da rodere per i romani -- che si precipita ad assediare Placentia, ricca colonia latina posta al centro della pianura padana come un guardiano della Gallia Cisalpina.

Certo conquistarla sarebbe un colpo pesante per la compattezza dello schieramento romano, senza contare l'impressione che provocherebbe tra i galli, per i quali quella città è sempre stata una spina nel fianco.

Placentia è costruita in pianura, forse sarebbe possibile tentare un assalto: ma probabilmente il fratello di Annibale non vuole logorare inutilmente le proprie forze e decide di cingerla d'assedio.

Un'intenzione aggressiva attuata in questo modo tanto cauto non va giudicata molto positivamente: ma forse Asdrubale intendeva permettere al fratello di recuperare il ritardo di preparazione.