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METAURO, FANO (PS), CENTRO tav. 7 F6

Il Metauro 207 a. C. - la battaglia

nicola zotti



La battaglia: 22 Giugno 207 a.C
.

Polibio e Tito Livio non concordano sulla dinamica della battaglia, né sulla composizione degli schieramenti: in questa circostanza Livio appare, comunque, più attendibile per la ricchezza della descrizione e per una maggiore coerenza interna del racconto.

Inoltre di Polibio ci è rimasta solo la descrizione della battaglia e non tutta la complessa manovra che l'ha preparata.

Alle prime luci dell'alba, dunque, dopo circa quindici chilometri di marcia notturna, i due eserciti si trovano uno di fronte all'altro su due morbidi pendii collinari opposti che si congiungono in un pianoro formando una specie di Y delimitata inferiormente dal monte Rosario, un rilievo non particolarmente apprezzabile, e superiormente dal fiume Metauro. Tra il monte e il fiume la distanza è di circa tre chilometri. Tra le due braccia della Y c'è il fosso S.Angelo -- che dà oggi il nome alla località -- il cui corso ha reso ripida e difficilmente transitabile la parte superiore destra della Y, mentre quella direttamente opposta è già naturalmente elevata e di difficile accesso: la mappa qui sopra renderà più chiara questa sommaria descrizione.

Se veramente Asdrubale ha cercato intenzionalmente questa posizione, allora dobbiamo dagli atto di aver giocato con molta accortezza le proprie carte. La sua idea di fondo può essere stata quella di farsi inseguire fino a questo terreno favorevole, per poi cambiare fronte e attaccare i romani quando ancora sono in crisi di organizzazione. Così adotta, abbandonando il campo, una disposizione di marcia che possa essere trasformata celermente in uno schieramento di combattimento congeniale al tipo di battaglia che vuole -- e che può -- dare.

Asdrubale impiega in questa battaglia un'intelligente rielaborazione dell'ordine obliquo di Epaminonda alla battaglia di Leuttra (371 a.C.). Intende cioè rifiutare un'ala (quella sinistra appoggiata al Metauro) e punta, invece, ad attaccare con la sua ala destra nella quale trovano posto le truppe migliori.

Per questo sceglie un luogo angusto, dove i romani non possano sviluppare la propria ampiezza di fronte, e rende più profonde le ordinanze, per sfruttare il peso della massa, facendole precedere dall'azione di sfondamento degli elefanti.

Lo schieramento cartaginese sul campo ricorda, non solo metaforicamente, un martello: il manico è costituito dai galli che si sono fermati, esausti, così come si trovavano dopo la marcia, lungo il crinale del colle; la testa è invece formata: a sinistra da un contingente di galli che è riuscito a mantenere una coesione sufficiente ad affrontare il combattimento, al centro dagli elefanti sostenuti dai liguri, a destra dagli spagnoli, nome sotto il quale vanno comprese tutte le truppe provenienti dalla penisola iberica e quindi anche i mercenari africani.

Così, il peso di tutto l'attacco cartaginese graverà su un unico segmento della fronte nemica, travolto il quale l'intero schieramento romano potrà essere preso a rovescio. Una volta rotta la fronte nemica, Asdrubale non avrà più ostacoli di fronte a sé e potrà proseguire verso sud fino a congiungersi con il fratello.

Il piano, però, perde una parte della sua efficacia per l'accortezza dei consoli e per l'efficienza delle truppe che essi comandano.

Infatti, come ho già riferito, i romani, pur arrivando sul campo divisi e in momenti diversi -- quindi il loro schieramento è in parte casuale -- riescono molto rapidamente a ricostruire la loro classica formazione da battaglia: facilitati in questa operazione dal fatto che i legionari hanno compiuto tutto l'inseguimento già dispiegati. In breve, con la massima attendibilità, la linea romana vede, da sinistra verso destra: "turmae" di cavalleria (la maggior parte), fanteria alleata in coorti, tutta la fanteria romana in tre linee parallele di manipoli, altra fanteria alleata in coorti, e infine la rimanente parte della cavalleria. A coprire tutta la fronte i veliti e gli schermagliatori.

Comanda la sinistra Livio Salinatore -- che è anche il comandante in capo -- mentre a destra è presente Nerone. Una parte non piccola delle truppe di quest'ultimo, quelle più a destra, si trova separata dai nemici da una doppia serie di ostacoli naturali: in prima battuta la scarpata del fosso S.Angelo, in secondo luogo l'asprezza del colle di fronte. Lo stesso discorso vale per i galli qui schierati: ma ci sono molti dubbi sulle loro velleità offensive dopo una notte di marcia.

Ad aprire le ostilità è un deciso attacco di Asdrubale. Narra Livio che l'assalto degli elefanti aprì con successo la strada dell'azione del grosso, riuscendo a «sconvolgere le fila degli antesignani»: sotto questo nome in epoca più tarda veniva indicato un gruppo scelto di legionari che «combattevano davanti all'insegna» e che veniva utilizzato anche nel ruolo di truppe d'assalto.

Nell'epoca dei fatti in esame, però, gli antesignani non esistono: la legione non ha un simbolo di prestigio come l'Aquila che, da Mario in poi, sarà la sua stessa anima. Ogni manipolo aveva un proprio stendardo e le proprie insegne votive, per cui un corpo come quello degli antesignani non ha motivo di esistere nel corso della 2a Guerra Punica. Livio, uomo nato nel 59 a.C., traduce con un concetto a lui noto un'idea sostanzialmente diversa: ritengo che l'azione degli elefanti portò in realtà scompiglio tra i veliti e le altre truppe leggere, perché all'epoca di Augusto erano proprio i legionari antesignani a compiere questo ruolo, se non si poteva far ricorso a specialisti: gli antesignani avevano anche l'armamento delle truppe leggere: un giavellotto anziché il pilum.

La lotta è subito aspra. Tanto Livio quanto Polibio lo affermano esplicitamente: il primo descrive il combattimento come una «atroce carneficina» (27.48.9), il secondo approfondisce meglio i motivi psicologici che animavano i contendenti, sottolineando come «entrambi gli avversari combattevano con grande energia, non nutrendo i Romani e tanto meno gli Spagnoli e i Cartaginesi alcuna speranza di salvezza se fossero stati sconfitti» (XI, 1).

Dal racconto di Polibio possiamo anche arguire di un grave momento di crisi tra le truppe romane, perché lo storico greco ci informa che «Livio affrontò i nemici con decisione e venuto a combattimento lottò animosamente»: dunque il console ha dovuto scendere in campo di persona, un'azione che un comandante non compie se non quando è strettamente indispensabile per rianimare degli uomini che stanno per cedere definitivamente di fronte al nemico.

Il successo iniziale dei Cartaginesi è addebitabile allo schieramento e all'azione degli elefanti. Questi ultimi, però, ben presto hanno perso qualsiasi governabilità e «si agitavano vagando tra le due schiere, come incerti quale fosse il loro esercito, simili a navi erranti sul mare senza pilota»: l'efficacissima immagine è di Livio (27.48.11) e ci aiuta a farci un'idea 'fisica' delle due armate sul campo: confuse ma ancora distinguibili, percorse, è il caso di dirlo, da elefanti imbizzarriti che non conoscono amici o nemici, ma che travolgono indifferentemente tutti quelli che non sono abbastanza lesti da scansarsi.

In questa fase la «testa del martello», come abbiamo definito l'ala destra cartaginese, deve aver fatto il suo dovere.

La linea romana ha sofferto l'urto, ha subìto una flessione però non si è ancora spezzata e in questo modo ha costretto il martello ad appiattirsi, facendogli così perdere parte del proprio potere di sfondamento: comunque una forza sempre sufficiente a vincere le ultime resistenze romane.



La manovra di Nerone

Nerone deve vivere questa crisi con grandissima preoccupazione: tutta la responsabilità di un'eventuale sconfitta sarebbe gravata sulle sue spalle, a lui sarebbero state addebitate tutte le colpe. Tanto più che solo una parte dei soldati che egli comanda sono coinvolti nel combattimento perché gli altri sono impossibilitati a farlo dalle asperità del terreno: si tratta di scendere una scarpata e di salire un colle: per far cosa poi? attaccare una folla di galli insonnoliti ed ubriachi.

Livio ancora una volta è prezioso nel renderci tutta la drammaticità di una situazione: ci racconta che «Claudio allora proruppe: 'A che pro, dunque, abbiamo percorso con affanno precipitoso un così lungo cammino?'». E con questo grido incitò gli uomini che alla sua guida si erano fatti 480 chilometri in una settimana, a cimentarsi anche in una prova di alpinismo, affrontando scarpata e collina.

Subito, però, desistette da questa iniziativa, perché alla sua mente era balenato un altro colpo di genio, degno gemello di quella eccezionale intuizione che lo aveva portato sulle rive del Metauro.

Prese un reparto dell'ala destra che vedeva inoperoso, lo condusse dietro le schiere romane -- il centro e l'ala sinistra -- avvolse il fianco dello schieramento nemico e quindi lo attaccò alle spalle. La velocità dell'operazione fu tale che i romani furono sorpresi tanto quanto i cartaginesi. L'effetto morale e materiale immediato e devastante.

La battaglia prese tutto un altro volto: narra Polibio che «una parte dei romani investiva gli Spagnoli di fronte, l'altra alle spalle, così il grosso degli invasori fu fatto a pezzi sul campo di battaglia». Gli Spagnoli erano schierati alla 'sinistra dell'ala sinistra' e come tali subirono tutta l'efficacia della manovra di Nerone. Una parte dei liguri e dei galli, invece, avrà il modo e il tempo di accorgersi del pericolo e di sottrarsi alla strage con la fuga.


Asdrubale non ha riserve da opporre a questo inaspettato aggiramento: e anche se le avesse avute, esso si era realizzato troppo rapidamente per essere contrastato. Qui il fratello di Annibale dà nuovamente prova del proprio indiscutibile valore, ergendosi tanto nella narrazione di Livio quanto in quella di Polibio alla dignità di un grande eroe tragico: tentò in ogni modo di fermare i fuggitivi, di rianimare la battaglia, di rovesciarne le sorti. Ma quando fu certo che il successo arrideva al nemico, si gettò contro una coorte romana cercando e trovando la morte in combattimento.

Lo storico romano e quello greco hanno parole di grande rispetto nei confronti del cartaginese: Polibio addirittura lo addita ad esempio dicendo: «Asdrubale, finché nutrì qualche speranza (...) provvide con ogni mezzo, durante le battaglie, alla propria salvezza; quando invece la sorte, dopo averlo privato di ogni speranza per il futuro, lo ridusse all'estremo pericolo, pur senza aver nulla trascurato né durante i preparativi né in combattimento per ottenere la vittoria, si sforzò insieme di non compiere alcuna azione indegna della sua vita passata qualora, sconfitto, dovesse cedere alle circostanze» (XI, 2).

Ben presto il combattimento si trasformò in una strage: né altrimenti si può definire la battaglia quando dilagò là dove si trovavano le milizie dei galli: la maggior parte venne scannata nel sonno.

Alla fine, secondo Livio, si contarono 56.000 morti tra i cartaginesi e 5.400 prigionieri, e 8.000 morti tra i romani e gli alleati. Molto più contenuto è il bilancio della battaglia secondo Polibio, il quale riferisce che «non meno di 10.000 Cartaginesi e Galli morirono in combattimento, mentre i Romani perdettero circa 2.000 uomini». I due riferimenti sono troppo distanti: e anche a voler accusare Livio di eccedere per voler a tutti i costi esagerare la portata della vittoria, le cifre che ci riporta -- persino dopo un energico tentativo di ridimensionamento -- rimangono sempre troppo distanti da quelle di Polibio.

È ovvio che sulle cifre delle perdite dobbiamo basarci anche per valutare gli effettivi delle armate -- in particolare quella di Asdrubale -- ad inizio campagna, per cui è veramente importante trovare un qualche compromesso che metta d'accordo le due fonti.

Personalmente ritengo che in questa occasione sia Polibio a sbagliarsi e motiverò in seguito, spero esaurientemente, questa opinione. Non può neppure essere escluso che egli riporti un totale 'parziale' delle perdite: ovvero solo i cartaginesi e i galli sommati assieme, e solo i cittadini romani.

D'altra parte l'emozione che a Roma susciterà questa vittoria è difficile da giustificare se fossero veri i dati di Polibio.

La conclusione

La vittoria romana fu totale. Solo una piccola frazione di nemici era riuscita a trovare scampo nella fuga e Livio Salinatore, avvisato del loro vagare nella campagna circostante in un gruppo di disperati senza comandante, senza ordine, senza disciplina, senza insegne, rinunciò a distruggerli, e per farlo sarebbe bastata una singola ala di cavalleria: «Sopravviva pure qualcuno -- sentenziò -- a portare la notizia della disfatta dei nemici e quella del nostro valore». (Livio 27.49.3).

Nerone non ebbe tempo di dire frasi celebri. Aveva troppa fretta di tornare a Canusium dove lo attendeva un nemico ancora più temibile di quello che aveva sconfitto.

Obbligò i suoi uomini ad un nuovo immane sforzo e ad un nuovo record di marcia forzata: 472 Km. in sei giorni, per una media di quasi 79 Km. al giorno. Mi astengo da un qualsiasi commento: ma mi piacerebbe sapere se l'impresa di questi legionari ha avuto qualche altro esempio simile nella storia militare o nella storia dell'atletica.

Nerone porta con sé, accuratamente conservata, la testa di Asdrubale: giunto a Canusium la farà gettare nell'accampamento di Annibale e questi leggerà nel volto del fratello ucciso l'infausto destino della propria impresa.

A Roma ogni attività si era fermata dal giorno della partenza di Nerone da Canusium. La città temeva veramente il peggio e quando invece, a soli due giorni dalla battaglia, giunsero i messaggeri che portavano la grande notizia, la prima reazione fu di incredulità: troppo bello per essere vero.

Solo dopo aver ottenuto una conferma, i romani poterono sciogliere la propria gioia.

Da quel giorno nessun romano temette più che si potesse uscire sconfitti dalla Seconda Guerra Punica: semplicemente si comportarono come se Annibale non fosse più sul territorio italiano.

E il comandante cartaginese dovette ulteriormente contrarre la propria sfera di influenza: si ritirò ancora più profondamente tra le aspre terre del Bruzzio, portando con sé, oltre al proprio esercito, anche le popolazioni che avevano parteggiato per lui.

Quando a Roma fu il giorno del trionfo, l'onore venne tributato a Livio Salinatore, in quanto Console in carica durante la battaglia -- sua era infatti l'armata principale e la provincia in cui si combatté -- ma in realtà le ovazioni più sincere e più entusiaste furono rivolte a Nerone, il quale partecipò al trionfo senza le sue legioni, cavalcando da solo dopo la sfilata dell'esercito del collega.


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