Provare paura è uno strano sentimento.
Spinge alcuni all'azione, e altri congela nell'immobilità.
Fare paura, invece, è un inebriante tonico per lo spirito e un insostituibile argomento identitario, confezionati in un corroborante senso di efficacia politica: "facciamo paura, dunque esistiamo e siamo importanti".
Fare paura ha un margine di rischio ridotto, quindi, da due eventualità: che l'altro non reagisca affatto, oppure si limiti a contrattare, cedendo anche solo in parte alla paura.
La terza possibilità – il rilancio – è inevitabilmente residuale e incorre, come pure il cedimento parziale, all'incertezze e ai difetti insiti nell'azione: ovvero nella barocca via crucis del "che fare".
Tutte le reazioni, infatti, sono in qualche misura già delle sconfitte: la vittima viene normalmente scelta con cura e colpita perché è già, appunto, una vittima. Essere presi in considerazione come potenziali vittime è misura di un'invitante e appetitosa vulnerabilità.
Inevitabile, seguendo questo ragionamento astratto, che l'arroganza dell'impaurire agglutini consenso politico, che cresce proporzionalmente non rispetto al numero e alla volontà di chi vuol fare paura, ma alla quantità e alla cedevolezza delle vittime.
Non è la legge del più forte ma quella del più debole a muovere il ciclo della paura e comporta al secondo un doloroso sforzo di adattamento e un cambiamento di prospettiva, alla ricerca di vie per conquistare l'iniziativa nel rapporto, sfuggendo la letale attesa dello "spavento", con l'offerta anticipata della sottomissione più conveniente ed onorevole.
Governare e amministrare la propria gracilità di vittime: ricordo dei doni sacrificali che i nostri antenati primitivi dedicavano alle loro divinità corrucciate.
NZ
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