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dicembre 2010
Guelfi e ghibellini? Ancora?



RImango sempre impressionato dai riferimenti storici, e mi ci attardo sempre a riflettere quando ne incontro uno.

Così mi è capitato di leggere sul Corriere della Sera del 16 dicembre un articolo di Alberto Arbasino -- insomma non uno qualunque -- dove con una certa amarezza l'autore si lamentava che l'Italia fosse rimasta nel profondo incapace di affrancarsi dalle corrosive ed estreme faide tra guelfi e ghibellini (sul web non l'ho trovato quindi accontentatevi di questa sintesi).

L'intenzione di Arbasino, come di molti altri prima di lui, era evidentemente quella di condannare l'epoca attuale legandola ad una delle peggiori (secondo lui) eredità possibili del nostro passato, alla sua animosità senza rimorsi, ai suoi colpi di coltello alle spalle, alle sue esaltate partigianerie.

Essendo riuscito a resistere al fastidio che mi provoca chi non offre soluzioni ma solo condanne moraleggianti, ho avuto modo di esercitare un po' di istinto critico. E per quanto io sia convinto del permanere nella testa di un popolo del suo passato, anche remoto, in questo caso ho qualche motivo per dissentire.

Perchè, innanzitutto, considerarlo un periodo negativo? Nessuno critico, Arbasino compreso, ne fa un'analisi storica, e anche io, quindi, seppure malvolentieri, mi adatto a questa regola. Per gli eccessi, le contrapposizioni sanguinose, l'esasperata faziosità? Il conflitto non esclude nulla che non sia umano, comprese le più crudeli manifestazioni dell'odio, così permettetemi di fingere di non capire a quale scopo lo si condanna quando assume tali estremi connotati.

Ad esempio potremmo domandarci se oggi in Italia (come in altre parti del mondo) ci sia l'offerta, magari un po' nascosta, di uno spazio di razionalità alternativo alla contrapposizione faziosa.

Oppure se esista lo spazio per coltivarla, se vi siano orecchie in grado di ascoltarla e intelligenze capaci di farla crescere.

Potremmo chiederci perché la nostra storia ha piegato verso questa china tanto acida, se vogliamo concederci almeno il beneficio del dubbio che la faziosità sia a volte dormiente nel nostro DNA di italiani.

E, sempre a margine dei dubbi, potrebbe pure essere messo in discussione l'utilità pratica di queste condanne da intellettuale amareggiato e intristito, di questi riferimenti ad un passato trattato acriticamente come un infantile luogo comune.

Forse gli italiani sono ancora quelli dei tempi dei guelfi e dei ghibellini, ma non è che gli intellettuali erano migliori allora di oggi?

NZ

novembre 2010
Il bisogno di caos, da Monicelli a Wikileaks



Ho buttato un paio di testi, superati prima dai documenti rivelati da Wikileaks il 28 novembre e poi dalla morte di Mario Monicelli.

Del primo argomento mi stimolava tornare a parlarne, del secondo mi è sembrato quasi necessario, per il valore metaforico che seppe dare alla guerra in alcuni del suoi film più famosi.

Ma proprio nell'interregno mentale tra due riflessioni, i due argomenti si sono fusi in uno solo.

Ricordate forse il film di Monicelli "un eroe dei nostri tempi" e se non ve lo ricordate il link qui sotto vi rinfrescherà la memoria.


Una storia caustica, raccontata da un Kafka "all'arrabbiata" che ci ricorda quanto il caos («io butto la bomba») sia un'opzione attuale per l'uomo comune quando patisce l'oppressione delle strutture sociali nella sua vita quotidiana.

Non la rivoluzione, ma il caos. Perchè il caos livella, abolisce le differenziazioni di status e non costruisce nuove gerarchie politiche.

Ad esso ci si affida non per scegliere o imporre nuovi valori, ma per liberarsi anche dei propri, che a volte, purtroppo, chiedono di essere faticosamente difesi.

E questo credo sia anche quello che resterà di Wikileaks, ciò che scalderà il tifo per la sua azione presente e futura.

I contenuti resi pubblici sono in realtà irrilevanti: ci vuole una disposizione maniacale per leggerli tutti e competenza per valutarli. Compito arduo per le strutture e le risorse dei grandi giornali, figuriamoci per l'uomo comune.

Ma Assange è un Robin Hood dell'informazione: la ruba a chi ne ha troppa per regalarla a chi non ne ha: non importa se la consumerà, se vi si formerà un pensiero, l'ebrezza del possesso, la sola euforia dell'abbondanza, sarà appagante, vi si attinga o meno.

L'umanità connessa alla rete può partecipare al festino delle informazioni riservate e toccare con mano l'enorme, grottesca produzione che rende obesi di fatti chi li consuma.

E anche solo per il fatto che potremmo, volendo, accedere a questo pantagruelico banchetto, contribuiamo anche al caos che esso interpreta e al contempo ritiene di esorcizzare.

Insomma anche stando seduti a casa buttiamo la nostra bomba contro il generico "sistema", e senza dover mostrare nemmeno l'ombra di un impegnativo perché.

NZ