ricognizioni
in territorio ostile
recce team
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CAPIRE È RISCHIARE |
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recce team
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dicembre 2004 |
ringraziamenti di fine anno |
Ho aspettato fino ad oggi, il giorno di Natale, per scrivere queste righe.
Sono questi giorni un po' complicati per me, ma felici.
E sento il bisogno di ringraziare quanti mi leggono (in questi 12 mesi siete stati quasi 35.000) per l'aiuto che mi avete dato facendomi sentire utile.
Ringrazio gli studenti che mi hanno copiato per fare i propri compiti: avete avuto buoni voti? so di una ragazza del liceo che ha preso un 9, spero non sia l'unica.
Ringrazio chi inserisce i miei testi nei forum e non aggiunge né la mia firma né il link a warfare.it: l'importante è che mi abbiano trovato interessante.
RIngrazio chi mi ha criticato: sono pochissimi, in verità, però gli esseri umani sono così distanti tra loro, che chiunque ti si avvicini in fondo ti sta facendo un regalo.
Ringrazio, infine, i moltissimi che mi hanno sostenuto con le loro parole di incoraggiamento: il loro valore è inestimabile.
Un felice 2006 a tutti.
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novembre |
Quale esercito per l'Iraq? |
Questo è un problema.
L'esercito e la polizia irachene furono sciolte
all'indomani della caduta di Saddam : oggi i volontari
vengono uccisi dalle autobomba mentre fanno la
fila per arruolarsi e le reclute quando tornano
(inermi e senza scorta) da periodi di addestramento.
Forse nuove reclute non mancheranno, a sostituire
i caduti, ma certo sarebbe opportuno dare loro
il tempo di formarsi, almeno impedendo questi
attentati e proteggendole -- o permettendo loro
di autoproteggersi -- se si spostano per imparare
il mestiere.
Temo che ben più grave dell'errore di aver
sciolto le forze di sicurezza nazionale, sia proprio
questa incuria nel costruirle. Una tragica, controproducente,
devastante incuria.
Un esercito dotato di forte spirito di corpo e
fedeltà costituzionale, pieno di orgoglio
e di lealtà nazionale è essenziale
alla democrazia irachena.
Ma a quale modello dovrebbe ispirarsi?
Non può essere una "Guardia nazionale",
una milizia part time di liberi cittadini, sul
modello di quella americana o dell'Esercito svizzero:
la tradizione nell'area è quella dell'esercito
di stato, e non vedo come se ne potrebbe trapiantare
una che nasce da una contraria, individualista
ma cementata da un fortissimo sentimento comunitario.
In Iraq diventerebbe uno strumento per le lotte
tribali.
Neppure si può pensare ad un esercito neocoloniale:
non c'è il tempo che ebbe, ad esempio,
l'esercito indiano. Secoli di guerre e anche di
ammutinamenti, di storie reggimentali che si sedimentano
nel tempo e costruiscono una solida cultura istituzionale
nei quadri e nei semplici soldati.
Temo molto sia difficile farne anche una realtà
veramente nazionale, dviso com'è il paese
in tre principali realtà etnico-religiose, più
svariate altre minori.
Ma se c'è un punto da cui partire, in un
paese che ha bisogno di sicurezza, è proprio
la sicurezza di chi deve garantirla: i militari
iracheni devono sentire fortemente che quel ruolo
e quella posizione garantiscono un futuro a se
stessi e ai loro familiari.
Perché hanno armi e sono capaci di usarle,
hanno capi competenti e autorevoli, hanno senso
della disciplina, indossano un'uniforme che rappresenta
un interesse collettivo in cui riescono ad identificarsi.
Ovvero sono "soldati". Dopo essere riusciti
ad arruolarsi sani e salvi e anche a tornare vivi
da un corso di addestramento dove gli viene appunto
insegnato ad essere un soldato: almeno questo,
prima di affrontare un combattimento vero e proprio.
E quello che accadrà loro in quel combattimento
-- avere paura, scappare, essere uccisi -- gli
accadrà da soldati e non da vittime sacrificali.
Insomma, prima di chiedersi a quale modello di
esercito dovrà ispirarsi quello iracheno,
sarebbe necessario almeno averne uno.
NZ |
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ottobre |
Scherza coi santi ma lascia stare i fanti |
I santi, com'è noto, sono di buon carattere,
santi proprio perché incarnano la virtù
della pazienza,
rara nelle persone normali.
I fanti invece non scherzano affatto. Specie quando
sono nell'esercizio delle loro funzioni vogliono
essere presi sul serio.
Per questo consiglio alle due "Simone"
di continuare a scherzare coi santi e di lasciare
stare i fanti.
Insistano pure con la freddezza nei confronti
del governo e della Croce Rossa, che hanno avuto
la pretesa di infiltrarsi nel miracolo della loro
liberazione.
Che come ogni miracolo si deve alle preghiere
delle ragazze, alla loro fede, alle loro buone
azioni nei confronti delle donne e dei bimbi di
Baghdad, alla solidarietà della comunità
mussulmana (e sì, forse anche all'immacolata
concezione di un milione di dollari...).
Rimangano in Italia a scherzare coi santi. Esprimano
la loro riconoscente devozione al Santuario del
Divino Amore, e poi, come Madonne pellegrine,
si lascino portare in processione per talk show
e piazze d'Italia, per la commozione delle mamme
e delle nonne.
Ma lascino stare l'Iraq e i suoi fanti.
PS (Mi correggo: se è possibile non esagerino
con le presenze nei talk show: o lo slogan degli
italiani diventerà: "riprendetevele,
riprendetevele, riprendetevele".)
NZ
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settembre |
Bulimia da comunicazione |
Sono rimasto colpito da una dichiarazione del
padre di Simona Pari: si augura che i
terroristi "ascoltino la figlia".
Aveva detto lo stessa cosa la moglie di Enzo Baldoni,
confidando che le sperimentate "capacità
di comunicazione del marito" lo aiutassero
a guadagnarsi la libertà.
"Trattare, trattare, trattare", chiede
il centrosinistra. "Tratteremo", risponde
il governo.
In questa società che parla, parla, parla,
obesa di comunicazione, in crisi bulimica cronica
da comunicazione, questa non è la reazione
a caldo di un affetto disperato e di una preoccupazione
sincera, ma il nostro compulsivo, grottesco, drogato
modo di essere.
Lo dico da uno che di comunicazione vive: "tutto
è comunicazione" è un assioma
che distorce la realtà: e allucinati ci
facciamo addosso i nostri bisogni.
Purtroppo,
comunicare è l'unica risposta che conosciamo
e siamo in grado di concepire
Dico purtroppo, perché nel contempo è
anche quella di cui "l'altra parte"
nemmeno prevede l'esistenza.
NZ |
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agosto |
Distinguere le teste mozzate |
Ho
avuto sempre molto rispetto per i "distinguo",
per la capacità di assumere posizioni "terze".
Hanno una sottigliezza intellettuale e un'intrinseca
qualità di pragmatico equilibrismo che
apprezzo spontaneamente.
E' nel patrimonio genetico di chi come me ha inteso
la politica anche come prestidigitazione dei principi.
Sottolineo quell' "anche", perché
non è un "esclusivamente" e perché
sia chiaro che è impossibile distinguere
tra teste mozzate.
NZ |
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luglio |
Non sono all'altezza |
Le ragioni di una guerra cambiano a seconda di
chi la conduce?
Una parte importante della sinistra italiana risponde
sì e afferma che se John Kerry sarà
il prossimo presidente degli Stati Uniti le nostre
truppe potranno rimanere in Iraq.
Naturalmente hanno torto: la guerra al nazismo
è una, sia che la guidi Stalin sia che
la guidino Churchill o Roosevelt o il maresciallo
Badoglio.
C'è una condizione oggettiva nella guerra
che si chiama "nemico": il nemico di
qualcuno e di qualcosa, che può essere
l'amico di qualcuno o di qualcosa.
Può essere anche il nostro nemico oppure
no, e questo ci apre la scelta di essere neutrali
o non belligeranti, se non vogliamo schierarci
oppure non vogliamo mandare i soldati.
Le scelte non mancano e sono chiare, sono "opportunistiche"
e "indipendenti" perché guidate
esclusivamente dalla difesa dei nostri interessi
e della nostra sicurezza: sono queste le ragioni
che entrano in gioco nella decisione e solo queste.
NZ |
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giugno |
Le nuove brigate internazionali? |
Nel
1936 sarei partito per la Spagna.
Avrei raggiunto il battaglione Garibaldi, della
XII Brigata internazionale, agli ordini del repubblicano
Randolfo Pacciardi e forse sarei stato nella compagnia
comandata da Pietro Nenni.
Avrei combattuto nella battaglia di Guadalajara
e avrei contribuito alla sconfitta delle truppe
nazionaliste e dei miei compatrioti italiani delle
Camicie nere di Roatta.
Nei giorni nostri da tutto il mondo giungono in
Iraq (o dove servono) altri volontari, con altri
scopi che non difendere l'indipendenza di una
repubblica democratica.
Il mondo si è rovesciato e l'internazionalismo
sembra al servizio del nuovo fascismo.
Segno
dei tempi. Ma è un peccato che le brigate
internazionali abbiano fatto questa fine.
NZ |
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maggio |
Etica delle intenzioni Vs etica della responsabilità |
Sappiamo quanto sia pericolosa l'etica delle intenzioni:
con la scusa delle buone intenzioni, del fine
ultimo, si finisce col giustificare qualsiasi
mezzo, anche i più abietti, come la tortura.
Ritengo
la tortura inammissibile in due casi: quando il
reato è stato già commesso, per
ottenere una confessione, e quando il reato è
stato giudicato, come parte della pena.
Personalmente, ad esempio, sono contrario tanto
all'uso indiscriminato della carcerazione preventiva,
quanto al regime del carcere duro.
Però le esigenze informative della guerra
hanno sempre portato con sè metodi contrari
ai diriti dell'uomo per estorcere informazioni
utili e necessarie allo scopo di conoscere e prevenire
le intenzioni dell'avversario.
La guerra al terrorismo è essenzialmente
una guerra informativa e investigativa ed è
quindi evidente che parte importante di essa si
sarebbe giocata in
quella terribile zona oscura.
Un'ombra che copre un dilemma morale: che cosa
si può o non si può fare per costringere
un prigioniero a rivelare notizie utili ad esempio
a sventare un imminente attentato terroristico
che potrebbe causare la morte di decine o centinaia
o migliaia di innocenti?
Era prevedibile che questo dilemma si sarebbe
presentato, perché è avere nella
testa una domanda così che distingue l'etica
delle responsabilità da quella delle intenzioni:
la prima indispensabile ad una democrazia, la
seconda troppo pericolosa per la sua stessa esistenza.
Era prevedibile e andava previsto, e avrebbe anche
segnato una distinzione percepibile con chi un'etica
non ce l'ha e sgozza gli innocenti.
Gli strumenti investigativi e la responsabilità
di chi doveva utilizzarli andavano esplilcitati.
Una conoscenza che avrebbe permesso una condivisione
di quella stessa responsabilità.
Visti gli abusi e l'indiscriminato ricorso alla
violenza senza giustificazioni credo che le dimissioni
del segretario alla difesa Rumsfeld siano indispensabili.
NZ
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aprile |
Guerra e scontro tra civiltà: omaggio a la
Palice |
Monsieur
de la Palice est mort,
Mort devant Pavia,
Hélas! S'il n'était pas mort
Il ferait encore en vie.
C'è
un affannoso ripetere che la guerra contro il
terrorismo fondamentalista islamico non è
uno "scontro tra civiltà".
E' tempo perso perché ogni guerra, da sempre,
è anche uno scontro tra civiltà.
Come potrebbe essere diversamente? E perché
questa guerra dovrebbe fare eccezione?
Sono gli stessi terroristi a celebrare il proprio
attacco alla cultura occidentale quando dicono che siamo corrotti e decadenti o
si compiacciono di amare la morte tanto quanto
noi amiamo la vita.
Non ci sarebbe bisogno di affermazioni tanto esplicite.
In un atto estremo come la guerra una comunità
investe sempre tutte le proprie risorse, a partire
da quelle culturali.
Le culture di una società determinano completamente
il modo in cui fa la guerra, come influenzano
qualsiasi altra cosa abbia origine all'interno
di quella società.
Affermazione
"lapalissiana" che apre a legittimi
sospetti.
Accantonata per rispetto degli interlocutori l'ipotesi
della mancanza di facoltà analitiche, ne
rimangono solo due.
La prima: l'incapacità di distinguere le
diverse culture negli altri, nella fattispecie
nell'Islam, e la paura che ne consegue. Se si
è intimamente convinti che ogni islamico
sia per natura un fondamentalista e che ciò
equivalga, almeno in potenza, ad essere un terrorista,
è logico che si tema che un miliardo di
mussulmani finisca con accorgersene. Mentre invece
dovremmo semplicemente accettare il fatto che
chi professa l'Islam non è necessariamente
un fondamentalista, e che anche questi ultimi
non devono essere obbligatoriamente terroristi.
La seconda: una mancanza di condivisione, accettazione
e identificazione della propria cultura. Se non
ci si riconosce pienamente nei tratti unificanti
una civiltà, se ci si sente altro, viene
spontaneo mettere le mani avanti e prendere le
distanze da una cultura che non si vuole in guerra
perché non si ha alcuna intenzione di difenderla.
E non riesco a pensare a qualcosa più degno
di essere difesa, anche con la forza, della nostra
cultura, che ci insegna a consentire ai fondamentalisti
religiosi di esprimere il proprio pensiero, e
a impedirgli tuttavia di violare le leggi che
ci siamo dati e che tutti dobbiamo rispettare.
Prossima puntata: "Ma non tutti gli scontri
tra civiltà sono necessariamente armati".
NZ
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Diritto
di ingerenza |
Il 19
aprile 1924, il cosmopolita Byron moriva in Grecia
per un virus oggi conosciuto come "diritto
di ingerenza per la liberazione dei popoli".
Ne erano afflitti altri nell'Ottocento e anche
poi per lunga parte del Novecento.
Sebbene non nutra particolare simpatia per le
malattie del romanticismo, devo riconoscere che
la loro sintomatologia comprendeva una nobile
ed altruista ansia di liberazione.
Comunque, il virus in questa sua antica forma,
dopo aver provocato numerose vittime, è
oggi definitivamente debellato.
Sopravvive una sua mutazione radicale, innocua
e inconcludente, denominata "no-global".
NZ
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marzo |
La storia non la scrivono i vincitori |
La storia la scrivono gli storici.
Chi la fa, normalmente, non è uno storico,
ma un politico, il quale a sua volta può
essere uno sconfitto o un vincitore, a seconda dei
casi.
Gli
storici appartengono al genere umano, e come tali
abbondano di pregi e difetti, come capita a tutti,
con passioni e idiosincrasie, orgogli nazionali
da difendere, conti da regolare, e soprattutto
l'ambizione di portare alla giusta luce e al giusto
peso qualche evento, fenomeno o personaggio prima
ignorato.
Già questo è un buon antidoto contro
la possibilità che la storia la scrivano
i vincitori, ai quali non è data in assoluto
la facoltà di annullare le fonti dei perdenti,
e quindi la possibilità che ad esse attingano
gli storici. E si potrebbe fare una buona lista
di storici "perdenti" che hanno scritto
la storia dei vincitori (Polibio o Flavio Giuseppe,
ad esempio) o di "perdenti" che hanno
provato ha riscirversi "vincitori" ma
non sono riusciti a gabbare gli storici (ad esempio
Ramesse II con la sua campagna per la conquista
della Siria conclusasi a Qadesh nel 1300 a. C.)
Ci sono poi gli scopritori dell'ombrello, (vedi la rivelazione
di Repubblica su Waterloo), che fanno del
sensazionalismo su basi assolutamente inconsistenti.
A Waterloo vinse una composita alleanza che rimase
solidale nonostante un poco entusiastico inizio:
gli inglesi finalmente si fidarono dei prussiani
e i prussiani degli inglesi, e i tanto sottovalutati
belgo-olandesi si guadagnarono anch'essi i propri
meriti.
Se volete una rivelazione, la campagna l'hanno
vinta loro: la vinse il Luogotenente Generale
barone Hendrik George de
Perponcher-Slednitsky quando disobbedì
all'ordine di Wellington di abbandonare Quatre
Bras, per chi non lo sapesse un incrocio di importanza
strategica. Il suo bluff sostenuto da pochi battaglioni
impedì che i francesi potessero incunearsi
tra l'armata anglo-alleata e quella prussiana
decidendo la campagna.
Wellington invece la storia seppe farla: e questo
è un altro discorso. Dimostrando doti da
politico anche migliori di quelle che aveva come
militare, si aggiudicò meriti altrui promuovendo
abilmente se stesso a scapito dei suoi alleati:
capacità dimostrata anche nella guerra
peninsulare, quando a farne le spese furono portoghesi
e spagnoli.
E queste doti Wellington le mise a frutto nel
dopoguerra, diventando Primo ministo.
Ma
allora che cosa dovremmo dire del generale De
Gaulle? Per
merito suo una nazione il cui peso nell'esito
della Seconda Guerra Mondiale è stato trascurabile,
dopo 60 anni siede ancora nell'empireo dei vincitori,
nel consiglio di sicurezza dell'ONU.
NZ
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febbraio |
Guerra e politica |
La citazione di v. Clausewitz è questa:
"La guerra non è dunque solamente
un atto politico, ma un vero strumento della politica,
un seguito del procedimento politico, una sua
continuazione con altri mezzi".
Un gioco di parole polemico molto in voga nei
nostri tempi ribalta l'asserzione di v. Clausewitz
in: "la guerra è l'interruzione, il
fallimento, della politica".
Nella crisi generale della politica, niente di
più naturale che questa affermazione abbia
successo, sottraendo alla politica altro dominio
e altra competenza.
In un passaggio del " Della guerra",
v. Clausewitz spiega: "la guerra di comunità
[...] nasce sempre da una situazione politica
e viene provocata solo da uno scopo politico:
costituisce dunque un atto politico".
Temporalmente, socialmente e logicamente la politica
precede la guerra: non è immaginabile una
guerra senza organizzazione sociale, senza regole
comuni, senza la condivisione di interessi che
giustifichino e consentano il ricorso ad uno strumento
così estremo.
La politica cessa di esistere solo quando scompare
ogni forma di organizzazione, di regole e di interessi
comuni, e ogni individuo è solo con se
stesso.
Ma al di sopra di quel limite, probabilmente irraggiungibile,
la politica è il tessuto di cui sono fatte
le relazioni umane: comprese quelle conflittuali,
compresa la guerra.
NZ
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gennaio 2004
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In
morte dell'internazionalismo |
"Il
ristabilimento di diritti fondamentali di un popolo,
quando essi sono gravemente misconosciuti, è un
dovere che si impone a tutti i membri della comunità
internazionale".
L'ha detto Bush per giustificare la guerra contro
l'Iraq? No. E' il 30° e ultimo articolo della
Carta di Algeri o Dichiarazione Universale dei
Diritti dei Popoli, promossa da Lelio Basso nel
1976.
Sono
trascorsi quasi 30 anni e si sentono tutti. Quella
dichiarazione era ispirata da sentimenti anticolonialisti
e antiimperialisti che dopo la Seconda guerra
mondiale avevano preso il posto dell'internazionalismo.
L'internazionalismo cosmopolita dei socialisti
era un principio ideale e critico, razionale e
politico: spingeva a cercare i punti di contatto
tra i popoli e ad agire assieme per un interesse
comune.
L'antiimperialismo e l'anticolonialismo, invece,
cristallizzavano differenze impolitiche, scolpendo
nella pietra il nuovo inemendabile peccato originale
dell'uomo bianco: aver colonizzato i continenti.
Danni collaterali? Una sinistra autoflagellante
e in cilicio, completamente assorbita in riti
di autoespiazione collettiva eredi delle antiche
processioni contro le pestilenze.
Che poi i supremi pontefici di questi riti provenissero
dall'unica nazione d'Europa, la Russia, che fosse
riuscita a tenersi tutte le sue colonie, era un
dettaglio da nulla.
Adesso che anche l'anticolonialismo è scomparso,
fagocitato prima dai movimenti ecologisti e poi
dai no global, e soprattutto che il "ristabilimento
dei diritti fondamentali di un popolo" sembra
un argomento di destra, il ciclo potrebbe dirsi
concluso: l'internazionalismo socialista è
veramente morto, probabilmente per sempre.
E' un altro pezzo di "politica" che
se ne va. Ma dell'estinzione della politica dall'ecosistema
umano a nessuno sembra importare particolarmente.
NZ
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Antisemitismo |
La questione non è poi così
complicata.
Per un'alchimia della storia, l'antisemitismo
è la febbre dei totalitarsmi: là
dove c'è antisemitismo, state sicuri
che un male cova nelle fibre di una società.
Questo è vero da secoli, ma è
ancora più vero dopo l'olocausto, ovvero
da quando una nazione ha messo al servizio
dell'antisemitismo tutte le risorse economiche
e sociali della propria civiltà industriale
avanzata.
L'organizzazione burocratica, gli scienziati,
i tecnici, gli industriali, gli intellettuali
di un popolo impegnati per il genocidio.
Burocrati che coordinano, scienziati che studiano,
tecnici che progettano, architetti che disegnano,
industriali che realizzano, operai che eseguono:
un'efficiente catena del valore che ha prodotto
morte anzichè ospedali, Volks Wagen,
fertilizzanti.
Tutta la potenza della civiltà delle
macchine scatenata contro chi professava una
religione (proditoriamente fatta coincidere
con una "razza").
Questo è per ora unico nella storia
dell'uomo. Ma non irripetibile.
NZ |
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