torna alla homepagetorna alla homepage
storia militare e cultura strategica
torna alla homepage
 
dalle discussioni
dell'area Warfare di MClink,
a cura di Nicola Zotti
 
home > tattica > la tattica annibalica


ricognizioni
in territorio ostile


recce team

storie
strategia
tattica
what if?
vocabolario
documenti
segnalazioni
link
scrivici


quelle piccole sciabole incrociate

quelle piccole spade incrociate

Viaggi nei
campi di battaglia d'Italia
sulle carte del Tci


UN MODELLO INSUPERABILE

La tattica annibalica

nicola zotti

La scuola militare di Amilcare Barca doveva essere ottima: i suoi tre figli Asdrubale, Magone e Annibale furono generali eccellenti. Annibale, in particolare, ha un posto di riguardo tra i geni dell'arte militare e rimarrà per sempre il miglior comandate di truppe mercenarie della storia.

L'arte militare di Annibale trova origine nella tradizione ellenistica, ma per la sua intima grandezza si rende indipendente ed autonoma da essa.

La cultura di Annibale è greca: greco di Sparta il suo precettore, greci gli intellettuali che frequentava, greca la lingua nella quale dettava le sue opere, andate purtroppo perdute, greco di Sicilia, infine, Sileno, lo storico che, sempre al fianco del generale cartaginese, fu testimone delle sue guerre e fonte primaria di Polibio.

Prima di Annibale tre grandi condottieri avevano segnato il corso della dottrina militare ellenistica: Filippo di Macedonia, Alessandro e Pirro.

Filippo era stato il primo innovatore sotto il profilo tattico e organizzativo.
Alessandro aveva rilevato dal padre Filippo uno strumento militare nuovo ed originale e lo aveva saputo esaltare in ogni suo aspetto, mettendolo al servizio del proprio ineguagliabile carisma.

Pirro sistematizzò il sistema alessandrino con approfonditi studi teorici, che anche in questo caso malauguratamente non ci sono stati tramandati, e introdusse innovazioni che ne correggevano alcuni elementi di rigidità emersi durante le guerre tra i successori di Alessandro.

Annibale si innesta su questo tronco, ma per darne un'interpretazione assolutamente originale e innovativa.

Va sottolineato che Cartagine aveva sviluppato una cultura militare autonoma più avanzata di quella greca, confrontandosi in Sicilia contro Gelone di Siracusa nel 480 e contro Dionisio I a cavallo tra V e IV secolo: narra Erodoto, ad esempio che Gelone offrì alla madrepatria per combattere i persiani 20.000 opliti, 2.000 cavalieri, 2.000 arcieri, 2.000 frombolieri e 2.000 "hamippoi", fanterie leggere addestrate a combattere al fianco della cavalleria, e quindi aveva probabilmente già "scoperto" il vantaggio tattico fornito dalla sinergia tra le varie armi.

La guerra contro la Magna Grecia, l'avanguardia intellettuale della cultura ellenistica, aveva quindi anticipato nei cartaginesi gli elementi di quello progresso tattico che poi ritroviamo sviluppato e compiuto nelle armate macedoni.

Il ciclo innovativo ellenistico dell'arte militare si era concluso, e una nuova fase fu aperta in Occidente. Durante gli anni della Guerra Annibalica, infatti, nel mondo ellenistico l'arte militare proseguì il cammino tracciato da Pirro cercando in particolare di rendere più agile e manovriera la falange, articolandola in snodi. Un processo che giunse al suo massimo sviluppo con Filopemene che battè gli spartani a Mantineia (207 a. C.), ma non si compresero né si studiarono i grandi passi compiuti in Occidente da Annibale.

Chi invece analizzò approfonditamente il sistema annibalico fu proprio il suo più acerrimo nemico, Publio Cornelio Scipione, e con profitto.
Nessuno meglio di Scipione si rese conto che Annibale aveva aperto un orizzonte inesplorato nell'arte della guerra, inventando un nuovo tipo di battaglia, e ne comprese tanto bene il meccanismo da diventarne il miglior interprete.

Per valutare appieno l'importanza storica del contributo di Annibale allo sviluppo dell'arte militare è necessario esaminare le caratteristiche dei tipi di battaglie che la precedettero: l'oplitica e l'ellenistica.

Nella prima, due opposte schiere di fanterie armate esattamente con la stessa panoplia - nel caso dei greci: grande scudo tondo, lunga lancia, corazza - si scontrano frontalmente risolvendo la battaglia in un unico colpo.

Gli elementi che portano alla vittoria sono due: il numero dei combattenti e la loro qualità. Vince chi ha gli uomini migliori o chi ne ha talmente di più da travolgere ogni resistenza con il peso dei numeri.

Il processo evolutivo che porta alla battaglia ellenistica complica non poco le cose. Innanzitutto ci fu una consistente differenziazione tra le tipologie dei combattenti. Ai fanti armati pesantemente si aggiungono anche i cosiddetti fanti leggeri, che con le loro armi da getto e la mobilità che è consentita loro dall'assenza di pesanti scudi o corazze, possono gravemente nuocere ai primi.

C'è la cavalleria pesante, la quale combinando l'imprevedibilità della propria velocità alla potenza del proprio urto può assestare colpi improvvisi sfruttando i momenti di debolezza dell'avversario.

C'è la cavalleria leggera, infine, che può superare in agilità tanto la cavalleria pesante quanto i fanti leggeri e sfruttando a dovere questa caratteristica può tenere impegnati avversari più forti e numerosi, eventualmente anche attaccandoli dopo averli esasperati con un continuo movimento elusivo e fiaccati con le armi da tiro.

Gli interventi di Filippo II e del figlio Alessandro conducono alla tattica macedone e alla battaglia ellenistica. Il fulcro di questo dispositivo tattico è il coordinamento tra i 4 tipi di truppe citati, affinché sia dato modo alle truppe di élite (usualmente la cavalleria pesante), di esplicare nelle migliori condizioni possibili tutta la propria forza in un colpo che decida la battaglia. È il concetto di ''armi combinate”, mediante il quale si tende da un lato a valorizzare al massimo i propri pregi, minimizzando, invece, quelli degli avversari, e dall’altro a nascondere i propri difetti aspettando il momento in cui l’avversario esponga i suoi.

La combinazione delle diverse armi genera una sommatoria che è maggiore della semplice “somma algebrica delle forze”, perché l'organizzazione gli dà un qualcosa in più.

Un processo indirizzato alla finalizzazione del colpo risolutivo, che viene sferrato dalla cavalleria pesante, di norma, perché essa possiede sia la velocità per sfruttare il momento propizio, sia la forza d’urto per essere decisiva.

È indubbiamente un enorme passo avanti rispetto alla tattica oplitica, ma Annibale va oltre.

In primo luogo ribalta il fine della tattica: non più quello di sfruttare al meglio i propri punti di forza scatenandoli su quelli di debolezza avversari, bensì creare l'insieme di condizioni che rendono inevitabile la sconfitta del nemico facendolo diventare debole proprio là dove questa debolezza è la condizione necessaria e sufficiente per la sua sconfitta.

Per riuscire in questo disegno, il comandante cartaginese deve rinnovare profondamente anche il concetto di armi combinate. Nella sua mente la battaglia è un tutto unico: certo, lo scontro sul campo sarà diviso in momenti e in azioni diverse, ma in realtà si tratta di un solo, unico movimento compiuto dall'esercito nel suo complesso. L’esercito non è un “insieme di parti organizzate” come era l'esercito ellenistico: le truppe, il loro schieramento e il piano di battaglia sono un’unica materia finalizzata alla vittoria.

Di Annibale è sempre stata esaltata, e a ragione, l'abilità nella guida delle truppe mercenarie provenienti dalle più svariate regioni del mondo. E si sottolinea la sua abilità nel trasformare bande tribali rozze e feroci in uno strumento di vittoria.

È errato, però, parlare di “trasformazione”: più corretto, invece, di adattamento ad un sistema, di assegnazione di un ruolo nell'ambito del piano di battaglia.
Annibale -- e Scipione con lui -- è un eccezionale "autore-regista" di battaglie: come un autore-regista di cinema o di teatro inventa una trama, scrive un copione, assegna le parti agli attori e li guida e li istruisce nell'interpretazione, altrettanto Annibale fa nelle sue battaglie, che non per nulla sono considerate dei capolavori dell'arte militare: si contano sulla punta delle dita i comandanti militari che sono riusciti a fare una battaglia di tipo annibalico durante tutta la loro carriera: i più si sono limitati a diventare famosi per battaglie di tipo ellenistico-alessandrino.

Annibale pone grandissima cura nello studio psicologico dell'avversario e fa leva sul carattere del nemico per ottenere quei vantaggi che si rivelano poi decisivi sul campo di battaglia.

Esaminiamo, dunque, in estrema sintesi le tre più famose battaglie di Annibale, per cercare di comprenderne meglio il meccanismo.

Alla Trebbia (218) Annibale aveva informazioni precise sul carattere dei consoli: conosceva l'impulsività di Sempronio Longo, ed aspettò il giorno in cui era al comando lui e non Publio Cornelio Scipione (il padre...) tra l'altro ferito in una schermaglia e salvato da Publio Cornelio Scipione (il figlio) per tendere una trappola all'esercito romano ed attirarlo in battaglia: 1.000 cavalieri numidi e 1.000 fanti leggeri furono occultati in un'imboscata al comando di Magone e quindi, all'alba, il resto dei numidi fu inviato a molestare il campo romano. Nel frattempo Annibale si assicurava che i suoi uomini facessero una colazione calda e si proteggessero dal freddo ungendosi d'olio. Sempronio reagì secondo quanto previsto, portando le truppe fuori dal campo senza nemmeno farli mangiare, dando subito la caccia ai numidi con la cavalleria ed inseguendoli oltre la Trebbia, gelata per il freddo. Così i romani si schierano oltre il fiume e quando il movimento avvolgente di Annibale e l'attacco alle spalle di Magone li manda in rotta, molti perirono annegati nella Trebbia. Le perdite di Annibale furono leggere, soprattutto galli: truppe che egli usava cinicamente in posizione molto esposta per assorbire gli attacchi dei romani.

Al Trasimeno (217) Annibale provoca i romani ad inseguirlo dopo aver devastato il territorio etrusco. Quindi si incammina lungo la riva del lago Trasimeno e lo supera, ma le sue fanterie leggere e galliche si dispiegano per vie nascoste lungo la cresta che lo costeggia. Quando il console Flaminio, ripreso l'inseguimento senza un minimo di ricognizione, si accorge che spagnoli ed africani gli bloccano il passaggio, tenta di schierarsi in battaglia, ma è perfettamente inutile, perché l'inaspettato attacco sul fianco ne ha già decretato la sconfitta.

A Canne (216) Annibale si superò. Il centro a forma di mezzaluna, la fanteria africana divisa sui due fianchi, un'ala di cavalleria forte ed una debole: è tutto un unico meccanismo finalizzato alla distruzione di un'armata nemica che si è fatta confinare in uno spazio ristretto. La formazione di fanteria va letta nella sua simmetria, dividendola per un asse centrale: si tratta di un doppio "fianco rifiutato rinforzato", ovvero di due diagonali accostate con le estremità "forti": una, quella proiettata verso il nemico, per resistere il più possibile alla sua pressione, e dare il tempo materiale alla seconda, quella lontana, di operare l'aggiramento, i cui tempi sono dettati e scanditi dall'azione della cavalleria, che deve sopraffare le ali nemiche per chiudere e completare l'aggiramento.

La cavalleria pesante compie un'azione non comune nella storia militare: addirittura una tripla carica, dimostrando di essere non solo sotto controllo, ma eccezionalmente misurata nello sforzo. Prima sconfigge la cavalleria romana sulla propria ala, poi gira dietro lo schieramento per andare a distruggere quella opposta, che i numidi hanno tenuto a bada con le loro schermaglie, e infine assesta il colpo mortale alla fanteria attaccandola alle spalle. Ma è errato credere che sia la cavalleria a vincere la battaglia: essa completa e corona un'opera già iniziata dalla fanteria: e ogni parte fornisce un contributo essenziale ed irrinunciabile.